L’arte e la paura di scomparire secondo l’artista Carmelania Bracco
L’artista Carmelania Bracco riflette sui punti di contatto tra il linguaggio creativo e l’esigenza di combattere il senso di sparizione correlato alla morte
“In quale disordine vivevamo, quanti frammenti di noi stessi schizzavano via come se vivere fosse esplodere in schegge”.
Elena Ferrante, Storia della bambina perduta
Non triste. Perché se fosse stato triste avrei avuto di che scrivere, avrei saputo che bastava parlare di quello per smontarlo, per analizzarlo pezzo a pezzo e vedere come funzionava, a quali parti deboli di me si attaccava e in che modo mi succhiava via la vita. Questo è invece un tempo vuoto ma in maniera feroce, che trapassa i reni come un’angoscia ancestrale di cui non ho ancora inventato il nome. Allora mi dico che non è solo mia questa cosa che non posso nemmeno dire dolore, che la sentono anche gli altri. E ne sono fermamente convinta, perché tutte le volte che ho creduto di fare, per la prima volta, qualche cosa di strano, importante, buono, interessante gli altri l’avevano fatta o la stavano facendo, meglio di me anche, e all’inizio questo mi rendeva triste perché mi accorgevo di non possedere il primato in nessuna cosa, poi piacevole perché pensavo che quello sarebbe potuto diventare il punto di partenza di una conversazione, di un ragionamento collettivo orientato alla ricerca delle radici del vuoto e del suo contrappeso, il solo momento in cui avrei potuto imparare con altre persone, compartecipare a un pensiero più complesso.
La conversazione, però, non c’è mai stata e se c’è stata non è mai riuscita neppure ad accennare al problema e ognuno ha continuato a lavorare sulle proprie cose, a fare le proprie letture, a pensare a sé e a chiedersi se gli altri. Forse neppure tutti si sono chiesti se gli altri. Gli altri chi, d’altronde, se non si sentivano voci, se nessuno parlava? E di tanto in tanto qualcuno ha raggiunto un traguardo e qualcun altro ha voluto superarlo per dimostrare di essere migliore e qualcun altro ancora si è fermato e ha cambiato direzione credendo di non essere in grado. Io credo di non essere ancora partita, eppure la parola traguardo mi ossessiona, è un’emicrania di cui non capisco l’epicentro ma che batte su tutti i lati della testa, ritmicamente. Anzi, ho l’impressione che man mano che vengono raggiunti dei traguardi, prenda prepotentemente piede un fenomeno contrario, proveniente non dall’esterno delle cose, dalla società e dai movimenti turbolenti di una corrente culturale sotterranea, ma dall’interno dei corpi, degli oggetti, di ciascun oggetto. Anche la morte mi ossessiona, qualunque forma lei abbia.
RIFLETTERE SULLA MORTE
Ogni cosa che esiste, animata e non, esiste per il solo e unico fatto di dover lottare contro il suo stesso stare al mondo, di evitare, sostanzialmente, di sparire, di smarginare, per utilizzare l’unico termine adatto. La materia che, attimo dopo attimo, si lascia modificare dal tempo e da tutto ciò che sta intorno esiste per durare un tempo limitato e ciò che possiede o acquisisce la consapevolezza della propria esistenza all’interno dei confini della limitatezza sente il bisogno di bloccare il processo di degradamento fisico e spirituale che parte dal centro di sé o di trasferirlo su qualcosa a cui si tiene in particolar modo. La consapevolezza dei propri margini è uno stato attivo e vigile a cui si giunge quando si conosce la morte. E la morte va elaborata, va studiata e avvicinata quando si è ancora in vita e quando non la si ha vicino perché venga assimilata e conservi straordinariamente intatto il significato di un corpo finito. Tutto ciò che esiste, che occupa uno spazio, ha una funzione, nel momento in cui vive e occupa uno spazio e adempie alla sua funzione fa da contrappeso alla morte, che è il punto irreversibile del processo di smarginatura, dopo il quale ciò che è intorno ai corpi, gli altri corpi e il tempo, non riesce a modificarli sostanzialmente.
IL RUOLO DELL’ARTE
Alla luce della morte, dell’incomunicabilità, della solitudine, della stanchezza, l’arte e la scrittura assumono una funzione nell’ottica dell’affermazione di sé, del proprio salvataggio dal nulla e, contemporaneamente, di quello degli altri. Al di fuori di questo non esiste nient’altro. Scrivo perché credo sia giusto, perché credo sia importante raccontare questa storia, che possa interessare a molti, che possa fare bene o anche no, che possa essere illuminante o che possa capovolgere un punto di vista. In un momento storico in cui c’è una sovrapproduzione di storie, se scrivo è perché la mia storia aggiunge qualcosa alle altre, è diversa e necessaria. In pittura è lo stesso. Per mesi tengo tutto per me perché credo non sia niente di questo, perché voglio rimanere ancora al buio, perché non ho ancora imparato i miei margini e già sento di stare perdendoli, ma il bisogno cresce e sopprimerlo significa accelerare la smarginatura e rendere i contorni indecifrabili, torbidi, pericolosamente aperti. Adesso, mentre questa pagina prende forma a fatica, si aggiunge un nuovo senso della pratica artistica e dell’impegno della letteratura e immagino che praticare arte quotidianamente sia la sperimentazione più pura della morte, che riesce ad arrestare l’assorbimento e a dare credibilità al senso delle cose quando sono in vita. Praticare arte come esercizio quotidiano, studiare, imparare a guardare, a scrivere con costanza per monitorare le smarginature e acquisire consapevolezza di esse, registrare, di volta in volta, le proprie linee e affidarle a una dimensione altra, distante dal concetto di mortale. Le azioni, in funzione della morte, si caricano di eternità.
Facevo i compiti con una mia piccola allieva di nazionalità algerina e, quando le ho detto che era stata brava e che non c’erano errori nei suoi esercizi, ha invocato sottovoce ma šāʾAllāh (che letteralmente significa “ciò che Dio ha voluto”), una sorta di formula magica che lei e suo fratello utilizzano quando accade loro una cosa bellissima che potrebbe scomparire da un momento all’altro mentre ce l’ha davanti. Ha immobilizzato quel momento e ho detto anch’io, nella mia testa, ma šāʾ Allāh per non dimenticare mai quegli occhi felici.
Anche i bambini hanno paura di scomparire.
‒ Carmelania Bracco
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