“Ecco cos’è successo al Pecci”. Intervista a Cristiana Perrella
La direttrice uscente del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato racconta ad Artribune la sua versione dei fatti sulla querelle che l’ha contrapposta al presidente Lorenzo Bini Smaghi.
Reca data 8 ottobre 2021 l’ormai noto comunicato del Centro Pecci di Prato che annunciava la revoca dell’incarico alla direttrice Cristiana Perrella, con poche perentorie spiegazioni. Il resto è storia: la direttrice raggiunta da Artribune offriva sinteticamente la propria versione dei fatti, alla quale seguiva quella del Presidente del CdA, Lorenzo Bini Smaghi in una intervista sempre sul nostro giornale. E poi le petizioni, ben due, una con note firme dell’arte contemporanea, l’altra più “popolare” su change.org per rimettere la Perrella al suo posto. Riannodiamo i fili ascoltando la versione di Cristiana Perrella.
È trascorso esattamente un mese dall’invio del comunicato stampa del Centro Pecci di Prato: eri a conoscenza dell’invio o è stato un fulmine a ciel sereno?
I modi con cui è avvenuta la mia rimozione dall’incarico sono stati a dir poco sorprendenti. Era ormai chiaro che la Fondazione volesse interrompere il rapporto, ma le modalità avrebbero dovuto essere diverse. A fronte della richiesta di rassegnare le mie dimissioni, si sarebbe dovuto procedere con una separazione consensuale, senza danni per nessuno, fatta con gradualità e responsabilità. Di fronte alla mia contestazione circa le modalità operative con le quali la Fondazione stava procedendo nei miei confronti (e, nella sostanza, nei confronti dell’attività del Museo) – che danneggiavano gravemente sia me che l’istituzione – la reazione, inaspettata, è stata quella di risolvere illegittimamente il rapporto e di inviare quel comunicato.
Beh almeno ti avranno avvisata?
No, non sono stata neppure avvisata. La scelta non solo di cessare il rapporto unilateralmente ma di rimuovermi con effetto immediato dall’incarico, lasciando (erroneamente) intendere la sussistenza di mie gravi inadempienze, oltre a nuocermi ulteriormente ha esposto il Centro Pecci ad azioni legali, l’ha lasciato senza guida ed ha recato un forte danno alla sua immagine.
Nell’intervista che gli abbiamo fatto, Bini Smaghi ha dichiarato l’esistenza di un accordo tra le parti secondo il quale ti saresti dimessa allo scadere del primo anno del secondo mandato…
Le affermazioni del Presidente sono contraddette dal contratto nonché dall’operato e dalle delibere della Fondazione stessa. Premetto che avrei preferito terminare il mio rapporto alla fine del primo mandato, piuttosto che prorogare la mia permanenza al Pecci in una situazione di sostanziale sfiducia da parte del CdA. Ero stata anche dal Sindaco a informarlo di come stavano le cose ricevendo da lui conferma del suo supporto al mio progetto di museo.
Poi cos’è successo?
I risultati raggiunti – nonostante le difficoltà e complessità generate dal Covid – hanno portato il Consiglio alla mia conferma (così da dare anche continuità ai progetti in corso). Peraltro, nell’interesse del Museo, non mi sono neanche opposta alla richiesta di andare via prima del tempo, ma si era ipotizzato che questo avvenisse ad aprile 2022, una volta portate a termine le attività ed i progetti in programma. Di fronte alla richiesta di fare un passo indietro, ho da subito messo in chiaro le condizioni per aderire.
Quali erano queste condizioni?
Che mi fosse permesso di lavorare in un clima di serenità e collaborazione da parte del Cda nonché che ci fosse la massima riservatezza sulla mia eventuale uscita anticipata così da salvaguardare la mia persona e l’attività ed immagine del Museo.
E queste condizioni sono state rispettate?
No, nessuna. Nei mesi scorsi ho lavorato in un clima tutt’altro che sereno e collaborativo; è stata addirittura commissionata una ricerca sulla performance e il posizionamento del Centro Pecci, a mia insaputa e, per questo, senza tra l’altro poter fornire a chi l’ha fatta le informazioni interne necessarie a una sua corretta impostazione. Infine, come affermato dal Presidente nella sua intervista, si è avviata, sempre a mia insaputa, la ricerca di un nuovo direttore, rivolgendosi a un’agenzia di “cacciatori di teste” e già nominando addirittura la commissione per la selezione dei candidati.
Come lo sei venuta a sapere invece?
Da un collega che mi ha chiesto perché stessero cercando un nuovo direttore al Pecci. Ho avuto conferma in queste settimane che altri colleghi erano stati contattati per sondare la loro disponibilità già durante l’estate. E questo mentre io stavo lavorando, prendendo accordi, facendo mostre in collaborazione con altri musei, cercando sponsor. Ignara che già, nel mio ambiente, era una sorta di “dead man walking”. Bini Smaghi afferma che l’accordo era stato fatto per “per salvaguardare” la mia immagine. Si è salvaguardata la mia immagine, in questo modo? O la si è danneggiata, in maniera immotivata e grave?
Entrando nei contenuti, quali sono state le ragioni di attrito tra te e il CdA?
Evidentemente il CdA riteneva che il programma e gli obiettivi non fossero abbastanza ambiziosi. Tuttavia, il mio programma prevedeva eccome una crescita ambiziosa ma, com’è ovvio, la condizionava, almeno per la realizzazione di “grandi mostre” che portassero molto più pubblico, al reperimento di maggiori risorse, che richiedevano la fattiva collaborazione del Presidente e della politica, anche eventualmente con l’ingresso di un socio privato nella Fondazione. Ciò è quanto accade in altre istituzioni pubbliche, ad esempio il MAXXI di Roma, dove Enel è socio insieme al Ministero e alla Regione. Mi è stato risposto in modo reciso che questo non era plausibile.
Come hai replicato?
Ho quindi calibrato il programma, e l’aspettativa degli ingressi del pubblico, sulle risorse che pensavo di riuscire a raccogliere con le sole mie forze, come ho sempre fatto. Quando sento parlare di “riportare il Pecci ai fasti di un tempo” mi chiedo se le persone che esprimono questa intenzione abbiano idea di quanto sia cambiato il mondo dal 1988. Tanto per fare un solo esempio: all’epoca esistevano solo due musei d’arte contemporanea in Italia, Rivoli e il Pecci. Oggi, solo l’Associazione dei Musei d’Arte ContemporaneaItaliani (AMACI) conta 24 soci, per non parlare delle Fondazioni private. L’offerta si è ampliata moltissimo. La pandemia poi, almeno nell’immediato, ha reso poco realistico mirare ad avere le file fuori dal museo. Detto questo, un percorso di riposizionamento del Centro Pecci è stato fatto in questi anni, a partire dal 2016, e con successo. Checché ne dica l’attuale Presidente.
Si è citato per esempio un numero in particolare, 40.000 ingressi annui…
Immagino ci si riferisca al 2019. In quell’anno abbiamo avuto 43.871 visitatori. Siamo in linea con istituzioni simili alla nostra se consideriamo che il museo ha riaperto nel 2016 senza le aule didattiche – che finalmente avrebbero dovuto essere inaugurate lo scorso 24 ottobre – dunque con una capacità ridotta di offrire attività che attirano le scuole e le famiglie, che sono fondamentali per l’impatto sociale e che notoriamente fanno salire i numeri. Lo sviluppo dei pubblici, non solo in termini numerici ma come possibilità di raggiungere diversi gruppi sociali, è comunque sempre stato un obiettivo importante per me, così come il radicamento sul territorio, facendo in modo che il museo fosse sempre più aperto alla città.
Nell’ambito della Commissione Consiliare del Comune di Prato del 29/10/2021 ti si contesta ad esempio il grande impegno nella curatela dei progetti del museo, ma una minore attenzione su questioni manageriali, del personale e di reperimento fondi. Come rispondi?
Premesso che sono docente di Management ed economia delle arti all’Università San Raffaele di Milano e che qualcuno ritiene, dunque, che io sia in possesso delle tanto decantate doti manageriali, rispondo che ho sempre onorato il mio ruolo di Direttrice, occupandomi di tutti gli aspetti della vita del museo, dal personale (portando avanti, ad esempio, una riorganizzazione del settore amministrativo e varando un piano di prepensionamenti), al recupero di funzioni e spazi (riaprendo il bar appena sono arrivata, facendo partire il recupero delle aule didattiche, elaborando in toto, su commissione del Comune, il progetto dell’Urban Center), ai rapporti con il territorio, al fundraising.
Ad esempio come?
Ci siamo mossi su più fronti, non solo trovando sponsor e donatori privati ma anche partecipando a tutti i bandi che uscivano per assicurarci fondi ministeriali. Sono fiera di dire che la nostra continua partecipazione all’Italian Council ci ha portato non solo le risorse per realizzare progetti importanti, come quelli di Luca Vitone, Mario Rizzi, Chiara Fumaie – è stato appena annunciato – Massimo Bartolini (unica mostra prevista nei prossimi mesi a non esser stata cancellata dal Cda) ma anche l’acquisizione di molte, bellissime opere. Altre saranno acquistate con i 140.000 euro ricevuti grazie al bando PAC. Quello che è mancato è stata la collaborazione del Cda e della politica, rispetto ai “grandi sponsor” che sappiamo poter essere coinvolti solo se interviene la “moral suasion” di chi ha relazioni diverse da quelle di un direttore di museo.
Pare chiaro che c’era proprio una divergenza di visioni su cosa è un museo e su cosa fa un direttore. Cosa deve essere un museo per te e che cosa deve fare un direttore?
Il museo è per me, prima di tutto, un centro di ricerca e produzione culturale, aperto all’interazione e al confronto tra linguaggi diversi della creatività. Un museo deve allinearsi sulle buone pratiche di gestione e programmazione, volte a garantire la sostenibilità economica e ambientale, l’accessibilità a pubblici sempre più diversificati, l’accrescimento e la valorizzazione del suo patrimonio materiale e immateriale, e in questo includo le competenze, la professionalizzazione e il riconoscimento di chi con il museo lavora. Il direttore sviluppa la visione culturale del museo, le sue relazioni e coordina le parti del suo complesso meccanismo. Come ho già avuto modo di dire, occorre coniugare visione teorica e capacità molto concrete di programmazione e gestione, restando in contatto con la società e con lo sguardo puntato lontano.
Nel frattempo, è arrivata la prima petizione e una seconda su change.org. Ti aspettavi tutto questo sostegno?
Questo è stato l’aspetto positivo di quella che è davvero una brutta storia, per modi e significato. Ho ricevuto, e sto ricevendo ancora, la solidarietà di moltissime persone, da cittadini pratesi che mi hanno scritto in direct su Instagram o inviando mail a miei ex-colleghi e chiedendo di recapitarmele (mi è stato infatti tolto immediatamente l’accesso alla mia mail di lavoro, così come è stato subito disattivato il mio numero di cellulare) fino ai firmatari della lettera di esponenti del mondo della cultura che è stata pubblicata una settimana fa (che ora sono più di 250, alle prime firme si sono aggiunti, tra gli altri, Achille Mauri, Anna Mattirolo, Chiara Costa, Giorgio Verzotti, Mariuccia Casadio…) e a quelli della petizione su Change.org, che sono anche più di 200. È molto bello vedere che il mio lavoro è stato compreso e apprezzato, e che tante persone abbiano deciso di prendere posizione rispetto a quella che, evidentemente, hanno considerato una stortura. Ringrazio tutti di cuore per questo.
Questa vicenda avrà da parte tua degli strascichi giudiziari?
Purtroppo sì, mio malgrado.
Ti rimproveri qualcosa su come hai gestito il tuo rapporto con Bini Smaghi o rifaresti tutto daccapo e allo stesso modo?
Ho imparato molto in questi anni al Pecci e recentemente in particolare. Ho affinato la capacità di cogliere meglio il senso che nascondono segnali che sembrano contraddittori, di capire il limite tra critica dialettica e la, pur legittima, opposizione non negoziabile nel merito. In questo caso non ci sono margini, meglio voltare decisamente pagina e andare avanti.
– Santa Nastro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati