Francisco Bosoletti. Lo street artist che fa dialogare ambiente e persone
Abbiamo incontrato l’artista di strada argentino che dipinge rispettando la memoria dei luoghi e delle persone che li abitano
L’arte di Francisco Bosoletti (Armstrong, 1988) ricorda i tratti di una classicità universale, dove dettagli colorati d’effimero raccontano significati profondi. La sua pittura obbliga a uno sguardo diverso, pretende una sensibilità sottile e potente, capace di scegliere modelli percettivi differenti da quelli abituali.
Sei nato ad Armstrong, un piccolo paesino nella provincia di Santa Fe. Come si è accesa la miccia creativa?
Vengo da una realtà che è totalmente al di fuori del meccanismo artistico. C’è stata una connessione con l’ambiente tipografico, sì, mio nonno lavorava tra le stampe e sono cresciuto respirando l’odore dell’inchiostro. Osservavo quello che accadeva intorno e mi perdevo nelle immagini. Del resto, quello che poteva offrire un piccolo paese argentino perso nel niente era poco. Dovevo trovarlo, inventarlo. Solo quando sono arrivato in Europa ho dato un senso all’arte nella sua accezione più completa, in qualche modo scoprendola e innamorandomene allo stesso tempo. Anche se continuo ad avvicinarmi solo parzialmente a queste dinamiche, resto in disparte, sono il solito osservatore che scruta senza entrare dalla porta principale.
Questo succede per evitare di contaminare la tua visione?
È l’osservazione che spesso mi sento fare dagli altri. In realtà non sono naturalmente portato a essere interessato ai lavori altrui.
Cosa invece ti interessa?
Il piacere di conoscere nuove cose. Quella relazione magica e incredibile che si crea tra i cittadini e le città, tra la cultura e l’architettura. Sono tanto legato a Napoli, così come a Firenze, ed è ogni volta curioso come le persone interagiscano con il patrimonio artistico nel contesto in cui vivono.
LA STREET ART DI BOSOLETTI
L’intimità che si crea tra le città e chi le abita.
Che ovviamente cambia in base al contesto. La comunione tra la gente e il patrimonio artistico può essere vissuta con fredda distanza o fortissima empatia. Ci sono elementi architettonici fatti per essere guardati e basta, altri che richiedono una partecipazione emotiva diversa. Mi piace molto osservare questo tipo di reazione, m’ispira, così come la trama sociologica che si crea.
Riesci a prevedere la reazione umana, il feedback sociale del territorio nel momento in cui realizzi un’opera?
A questo punto della mia vita, soprattutto per merito dell’esperienza, direi di sì, posso immaginare quella che sarà la risposta della gente. L’arte urbana è un incontro immediato, non premeditato, a differenza di quando scegli di vedere una mostra e paghi il biglietto. Capitano anche reazioni fuori controllo, in positivo o negativo, quando diventano simboli per un quartiere della città. È una situazione di passaggio che perderà il suo colore, svanirà, lasciando comunque un segno.
Ti allontani molto dai colori urlati della street art.
Mi piace l’idea del progetto da comprendere e del suo sviluppo, che abbia una coerenza e risponda alla mia idea di senso estetico. È una forma di onestà intellettuale. Cerco di essere sempre rispettoso del contesto in cui mi muovo, con i toni in scala nella gradazione del grigio, ad esempio. Non c’è mai un impatto violento o gridato, bisogna voler osservare i miei murali. E sono racconti semplici, hanno un approccio veloce.
LE OPERE DI BOSOLETTI
Qual è l’opera che ritieni più rappresentativa?
Forse Speranza nascosta, che ho realizzato in un quartiere di Napoli, Le Fontanelle. Realtà che esistono ma non si vedono, che diventano labili, quasi invisibili. Ed è questo che ho provato a fare, lavorando con il negativo: quando lo osservi devi azionare fantasia e memoria, ricordi e visioni per arrivare a un’immagine. Così la gente passa ancora lì davanti, senza riuscire a vederlo distintamente, percependo solo qualcosa di quel volto ritratto sul muro. Ricordo lo stupore di un passante nell’attimo in cui ha scoperto che per vederlo bastava attivare il filtro ultravioletto del cellulare, poco dopo ha radunato una folla incredibile di persone. La percezione della scoperta è stata per me bellissima, quell’emozione l’ho sentita tutta. E poi c’è Iside, nei Quartieri Spagnoli tra Capodimonte e via Foria. Credo e spero di aver dato la giusta luce, il vestito adatto. Ogni volta che torno e mi fermo a osservare, sento l’energia attesa.
Il cuore in Bielorussia invece qualche problema l’ha creato.
È incredibile come un simbolo così semplice, se portato e letto in un Paese con dinamiche politiche particolari, possa generare tanto scalpore. Sono stato frainteso, capita.
Come si struttura il processo di creazione?
È in continua evoluzione, in costante cambiamento. Ho trovato una mia estetica, mi accorgo che le opere dialogano pur essendo differenti. C’è uno scambio interattivo, tra di loro e con me. Quindi nascono nel momento in cui trovo il luogo, l’idea cresce insieme all’ambiente e trova il suo soggetto. Faccio attenzione al peso degli oggetti dentro al dipinto, dev’esserci la giusta cromia rispettando il contorno e la luce che naturalmente si trovano intorno.
LO STILE DI BOSOLETTI
Barocco napoletano e Rinascimento fiorentino sono dei punti di riferimento per te.
Costantemente alla ricerca del bello di quegli anni, che tanto mi chiama e trova in quel contesto artistico la sua ispirazione. L’idea del negativo prende forma anche dalle fasi di ricostruzione “radiografica” del restauro. Muri, affreschi, tracce del passato, un’estetica per me fondamentale.
A cosa stai lavorando?
Forse al mio progetto più importante. Sono a Somma Vesuviana, vicino Napoli, nel Borgo del Casamale, un impianto medievale fatto di vie strette, archi, con le coperture delle case che sembrano toccarsi non consentendo al sole di filtrare. Un luogo magico, carismatico, suggestivo dove la mia opera sarà pronta il prossimo anno. Dentro ci sarà tutta la quotidianità, le tracce del territorio che si respirano vivendoci. Un incontro di racconti tra i giovani e gli anziani che abitano quella zona così pura. Ne deriveranno un documentario e un libro. La più grande vittoria sarebbe riuscire a trattenere tutto questo immaginario, e trasmetterlo come merita.
‒ Ginevra Barbetti
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