L’arte comunitaria e la relazione con l’altro
Nuovo capitolo della serie di mini saggi di Christian Caliandro sull’arte comunitaria. Stavolta a essere sciolto è il nodo della relazione con gli altri
“Ho visto le migliori menti della mia generazione / distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude / strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia / hipsters testadangelo bramare l’antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte, / che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di case con acqua fredda librati su tetti di città contemplando jazz, / che il cervello spogliavano al Cielo sotto l’Elevata vedendo angeli maomettani barcollare su tetti di condomini illuminati, / che in università eran di passaggio con occhi raggianti e cool allucinando Arkansas e Blake-lumilievi tragedie tra studiosi della guerra, / che erano espulsi da accademie per pazzo e osceno pubblicare odi sulle finestre del cranio, / che in camere non sbarbate impauriti s’acquattavano in mutande, bruciando i soldi nella carta straccia e ascoltando il Terrore di là dalla parete” (Allen Ginsberg, Urlo [Howl, 1956], in Urlo & Kaddish, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 23-25).
LA RELAZIONE CON L’ALTRO
Tivoli, 11 agosto 2021. La questione della relazione. Tutto è relazione, cioè un rapporto: ogni gesto, ogni azione, ogni movimento, ogni scelta.
Mentre guidiamo – mentre parliamo – mentre allestiamo una mostra – mentre pensiamo.
Non esiste l’esistenza (o la riflessione, o la creazione) solitaria, puramente individuale – è un’illusione.
Che lo vogliamo o meno, che ne siamo consapevoli o meno, ogni discorso pensiero comportamento avviene con l’altro, esiste con e insieme all’altro, e non può prescindere dall’altro.
Ogni cosa che faccio è un rapporto: mentre guido in autostrada, per esempio, devo stare attento non tanto a ciò che faccio io, ma a quello che fanno (o non fanno) gli altri. Quando allestisco le opere per una mostra, la relazione nello spazio comprende e ingloba e prevede gli spettatori che, nella migliore delle ipotesi, smettono di essere tali e diventano parte dell’opera, partecipando attivamente alla sua creazione (oltre che alla sua fruizione).
Durante un concerto, il cantante e il gruppo stabiliscono con il pubblico una relazione, uno scambio, un’
INTERAZIONE –
e il pubblico stesso (se va molto bene) cessa di essere tale e partecipa alla produzione della musica.
Mentre scrivo, non solo ho presente i (potenziali) lettori e un lettore/una lettrice ideale (adolescente o ventenne, si interessa di arte e cultura contemporanea ma non sa ancora bene che cosa farà della sua vita, legge un sacco e ascolta bella musica…), ma quelli che saranno i futuri lettori in molti casi hanno già partecipato in varia misura alla realizzazione e alla concatenazione dei pensieri e delle idee che poi vengono qui tra-scritti, e nel testo rimane traccia di queste presenze ‒ di queste co-creazioni.
Questo tipo di approccio (basato, ancora una volta, sull’incontro e sull’esperienza diretta intensa) presuppone una grande fiducia nei confronti degli spettatori/lettori (che non sono quindi clienti/consumatori): cioè io autore non devo accompagnarti passo passo, guidarti per mano e consolarti, ma ti faccio perdere e disperdere e disconoscere e ti distraggo continuamente dalla meta che non c’è, e non ti metto quasi mai a tuo agio ma magari ti spingo e ti abbandono in zone dove non vuoi essere né restare – e a te questo piace.
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LA QUESTIONE DELLA RECIPROCITÀ
Io non esiste.
Tu non esiste.
Io e tu sono nel tutto.
(Sghembi, e incompleti, e disarticolati, e inadeguati, e sfrangiati, e aperti.)
“Pat aveva i capelli tagliati a spazzola che gli si sono allungati durante l’estate e io resto sorpreso nel vedere quant’è giovane, 19 o giù di lì, mentre io sono così vecchio, 34 – Non mi disturba, mi fa piacere – Dopo tutto anche il vecchio Fred ha 50 anni e non se ne cura e le cose vanno come vanno e se ne vanno per sempre quando ce ne andiamo noi – Solo per tornare sotto qualche altra forma, come forma, l’essenza dei 3 nostri rispettivi esseri non ha certo preso 3 forme, ma semplicemente passa attraverso – Perché è tutto Dio e noi le menti-angeli, perciò benedite e sedetevi –” (Jack Kerouac, Angeli di desolazione, Mondadori 2000, p. 123).
Un pensiero veramente radicale, oggi come ieri, parte dall’identificazione con l’altro e con le sue ragioni/osservazioni/percezioni/interpretazioni, attraverso:
- RECIPROCITÀ
- ESPERIENZA
- SCAMBIO
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IL PROBLEMA DI NON PRENDERE POSIZIONE
In viaggio per Roma, 1° ottobre 2021. Il non parlare, l’abituarsi al non esporsi mai, a stare al coperto, a non esprimere la propria opinione, per paura delle eventuali conseguenze o rappresaglie, per non offendere o infastidire o far arrabbiare il potente di turno, il potente che ci potrebbe favorire o sfavorire a seconda di come gli gira, e quindi non bisogna farsi notare, non bisogna segnalarsi, che vadano avanti gli altri se ci tengono, che si espongano loro… salvo poi fare finta di prendere posizione, e acquisire improvvisamente una coscienza sociale e civile e politica, quando conviene e quando fa comodo; quando diventa una faccenda di moda, e quindi l’esserci nel gruppetto, nella consorteria, tra i firmatari dell’appello X o della lettera Y o del programma Z diventa un fattore di distinzione, un elemento per contarsi e per contare – per dimostrare agli altri (invidiosi, tiè!) che si conta qualcosa, qualsiasi cosa: che si è qualcuno… e poi, mi raccomando, fate pure gli artisti (o i curatori, se è per questo) “relazionali”, “esperienziali”, “di comunità”, gli artisti civili & responsabili & politici, gli artisti tanto coraggiosi che hanno a cuore la democrazia e che combattono a viso aperto per la sua affermazione e tutela – a patto che sia nelle Filippine o in Birmania o a Hong Kong o in Russia, lontano comunque da qui, lontano da noi e da voi stessi, per carità. Ne viene fuori un quadro abbastanza spaventoso di immaturità, irresponsabilità, infantilismo ed egoismo. Ma opacità, non detto, ambiguità e omertà non portano mai a nulla di buono.
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IL MURO DEI PINK FLOYD
Lungomare di Bari, 19 ottobre 2021. …. il “muro” eretto da Roger Waters e dai Pink Floyd a fine Anni Settanta è il più importante tentativo di costruire un’opera monumentale che fosse al tempo stesso un racconto autobiografico e una critica abrasiva della mitologia rock’n’roll.
Il muro che divide la band dal suo pubblico, la rockstar dai suoi fan, è un muro che separa e isola, che protegge l’individuo creativo dall’assalto potenziale dei suoi ascoltatori/spettatori/lettori/fruitori, ma che al tempo stesso lo rinchiude all’interno delle proprie ossessioni, della sua prigione mentale (Hey You, Is There Anybody Out There, Comfortably Numb). La liberazione offerta e rappresentata dal “crollo” finale del muro (Outside the Wall) è illusoria, una specie di parodia, comunque più un auspicio e un evento fittizio che non una realtà acquisita: non a caso, The Wall costituirà il vero modello di tutti i concept album successivi costruiti attorno al concetto e all’esperienza dell’alienazione (in primis Disintegration, 1989 e Bloodflowers, 2000 dei Cure, The Downward Spiral, 1994, The Fragile, 1999 e Year Zero, 2007 dei Nine Inch Nails).
‒ Christian Caliandro
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