L’Arte colta di Carlo Maria Mariani. Il ricordo di Renato Barilli
Il critico bolognese ricorda l’artista scomparso pochi giorni fa, esponente della cosiddetta Arte colta che non sempre ha trovato il favore di Renato Barilli
I colpi della morte mi sparano sempre più da vicino, questa volta è stato colpito Carlo Maria Mariani, più anziano di me (1933) di soli due anni. Tante cose mi legano a lui, in primis di essere stato forse il primo a presentarlo quando era entrato nei panni di capofila della cosiddetta Arte colta, ma tanto più giusta era l’etichetta di Anacronismo, perfetta per quella preposizione che sta proprio a indicare un indietreggiare nel tempo. Confesso che è un’etichetta molto più propria di quella di Nuovi-nuovi, da me assunta in seguito. Però io avevo aperto i giochi con una sigla equivalente, intitolando una mostra allo Studio milanese Marconi nell’ottobre 1974 La ripetizione differente, in cui Mariani non c’era, a quella soglia non era ancora arrivato. Vi era giunto solo due anni dopo, quando il suo gallerista di riferimento, Enzo Cannaviello, lo aveva portato a esporre in uno spazio romano nei pressi di Piazza Navona.
RENATO BARILLI E CARLO MARIA MARIANI
Nei due anni precedenti io avevo puntato soprattutto sul duo Ontani–Salvo, ma sono stato sempre propenso ad allargare gli orizzonti, e soprattutto a non impossessarmi delle cose, a non porre sfacciate bandierine di possesso sui fatti nuovi dell’arte, a differenza di quanto avrebbe fatto qualche tempo dopo Achille Bonito Oliva coi suoi cinque della Transavanguardia, che in quel momento si muovevano solo tra foto e disegnini, sull’onda della Narrative Art. E dunque, pur apprezzando Mariani, e vedendo in lui un chiaro segno di un grande fenomeno in atto, non ho mai pensato di impadronirmi né di lui né della situazione di cui era alfiere, lasciandolo a una squadra di entusiasti sostenitori, come in primis Italo Mussa, e il duo Giuseppe Gatt-Italo Tomassoni, e infine il grande Maurizio Calvesi. In definitiva, a mio avviso mancava in Mariani e compagni un quid di “differenza”, di scatto in avanti, per cui si adeguavano per intero ai modelli dei musei da cui rubavano le loro immagini, rifacendole con la perfezione di copisti. Con a loro vantaggio il fatto di rivolgersi a capolavori inesistenti, e dunque eravamo dentro uno degli episodi del “concettuale” o del postmoderno, Però avevano la tendenza a esagerare, nel rivolgersi a quei fantasmi del passato, con un eccesso di perfezionismo. Mentre sia i seguaci di Ontani e Salvo, cui sarebbero poi andate le mie preferenze, sia i Transavanguardisti, quell’eccesso di perfezionismo o di compiaciuto accademismo lo evitavano, procedendo in modi snelli, smagriti, rampanti nello spazio.
Tanto è vero che di tutto quel gruppo di artisti “colti”, oltre a Mariani, io sono riuscito a rendermi digeribile il solo Stefano Di Stasio, lasciando gli altri a un museo degli orrori abbastanza infrequentabile, di bambolotti gonfi e inerti.
MARIANI A NEW YORK
Dopo quel primo intenso e rivelativo rapporto con Mariani temo di non averlo più incontrato di persona, ma ne ho seguito con piacere la carriera, che ha varcato l’Oceano trovando ottima accoglienza proprio a New York, e nell’ambito più che autorizzato dell’architettura postmoderna, quasi a rivendicare i nostrani titoli di merito, accanto a un Aldo Rossi, fatto salvo quell’eccesso di gonfiore e di accademismo del nostro artista. Comunque, nella mia attività di storiografo, non ho mai mancato di fare l’accostamento tra quelle tre importanti aree di creatività nostrana, Nuovi-nuovi, Arte Colta, Transavanguardia, e quanto era avvenuto negli Anni Venti, tra Metafisica, Novecentisti, varie Scuole romane. Sono andato perfino a New York, al Centro Italiano Arte Contemporanea (CIMAC) della Mattioli, a erudire gli studiosi Yankee su un simile decisivo capitolo di casa nostra, di cui Mariani costituisce un riferimento inevitabile.
‒ Renato Barilli
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