“Non sono interessato a mostre del mio lavoro. Come ho detto in precedenza, il lavoro è troppo familiare”. Le parole concise con cui Jasper Johns (Augusta, Georgia, 1930) ha salutato quella che a oggi è la maggiore esposizione dedicata alla sua opera vogliono ribadire il mito dell’elusività di questo gigante del secondo Novecento.
Al suo perdurante interrogativo tenta di dare risposta la mostra Jasper Johns: Mind/Mirror, concepita congiuntamente dal Whitney Museum of American Art di New York e dal Philadelphia Museum of Art: le due istituzioni, legate all’artista da un rapporto di lunga data, spingono in questa occasione la collaborazione a livelli d’integrazione rari. Guidata dal “dispositivo strutturale” di rispecchiamento (nelle parole di Carlos Basualdo, uno dei due curatori) desunto dall’opera di Johns, l’esposizione è infatti concepita unitariamente e ripartita nelle due sedi, allo stesso tempo autosufficienti e complementari (il presente testo si riferisce alla versione del Whitney). Attraverso questa “metafora organizzativa” (come la definisce Scott Rothkopf, co-curatore), il lavoro dell’artista è presentato attraverso una molteplicità di prospettive che interessano soggetti, luoghi, singole opere o serie, storie di mostre, metodologie, al centro di dieci gallerie in ordine sostanzialmente cronologico.
LA MOSTRA DI JASPER JOHNS A NEW YORK
La mostra inizia in maniera deflagrante, quasi schiantando lo spettatore davanti a un’estesa parete dedicata alla produzione grafica: l’opera di Johns è qui racchiusa come in un microcosmo, confermando l’importanza di un medium convenzionalmente assegnato ai gradi minori nella gerarchia artistica. L’itinerario espositivo si avvia quindi sulle note cupe della Scomparsa e negazione, strategie di occultamento del sé che l’autore pratica dopo il trasferimento a New York (1953) e l’inizio del capitale sodalizio – lavorativo e sentimentale – con Robert Rauschenberg. Iniziano qui a comparire alcuni fra i suoi soggetti canonici quali i bersagli che, insieme alle bandiere e alle mappe degli Stati Uniti (al centro della successiva galleria), dichiarano la svolta radicale impressa da Johns alla storia dell’arte.
In quel momento, nella seconda metà degli Anni Cinquanta, l’artista abbandona le altezze tematiche e l’emotività esibita dell’Espressionismo astratto allora dominante per inaugurare un’attenzione inedita verso la dimensione banale del quotidiano: “Cose che la mente conosce già” e che, come tali, sono “viste ma non guardate, non esaminate”, come chiariscono le sue parole ormai famose, preziosamente custodite per la decrittazione del suo lavoro. La parata di bandiere e mappe, esposte sulle due pareti a esibire le opzioni del bianco e nero e del colore, è uno dei momenti più alti della mostra.
LE OPERE DI JASPER JOHNS
Un carotaggio biografico conduce quindi in South Carolina, in quel sud in cui l’artista è nato e cresciuto, riscoperto dopo la drammatica rottura con Rauschenberg. In questa galleria è illustrata la dimensione del lavoro in studio (documentato, fra l’altro, dalle foto di Ugo Mulas) e l’affiorare di dati autobiografici, manifestatosi dagli Anni Novanta. La seguente sezione si concentra su una sola opera, l’imponente According to what (1964), che testimonia la pratica del costante ritorno su temi, figure, lavori, dissezionati attraverso media diversi (in questo caso, la grafica) nonché l’importanza della lezione duchampiana. Lo sguardo si allarga, quindi, a un’intera esposizione – quella da Leo Castelli nel 1968 – qui ricostruita come “mostra nella mostra”: la fedele riproposizione della planimetria e dimensioni della originaria galleria newyorkese sottolineano l’importanza del contesto espositivo e della trama visiva intessuta fra le opere. Il continuo lavorio intorno alle immagini è documentato anche dalla serie dei diciassette monotipi Savarin, realizzati nel 1982 a partire da una scultura che riproduce in bronzo l’omonimo barattolo di caffè utilizzato come contenitore di pennelli: lo strumento del lavoro dell’artista diventa oggetto d’inesauste variazioni, che danno conto di un continuo gioco di ripetizione differente.
JASPER JOHNS IERI E OGGI
Si arriva quindi a quello che il titolo suggerisce come nucleo centrale della mostra, dedicato alle nozioni di rispecchiamento e doppio. Il celebre Painted bronze (1960), scultura bronzea che riproduce un paio di lattine di birra, troneggia al centro della sala all’intersezione fra due pareti diagonali, proiettando il meccanismo duale sulle pareti angolari, ospitanti coppie di opere che giocano sulla duplicazione di elementi, la simmetria interna o il raddoppiamento (attraverso variabili dimensionali o cromatiche). Altrettanto sintomatica, nonché curiosa, è la proposta di miniaturizzazione di alcuni episodi nell’iconografia dell’autore, al centro della contenuta galleria adiacente. Il percorso propone in coda la produzione dagli Anni Ottanta a oggi, raggruppata intorno ai temi del sogno, al ritorno sui precedenti soggetti numerici (nella spettacolare galleria affacciata sull’Hudson, che ruba la scena) e alla più recente meditazione sulla mortalità (Elegies in the dark). La sezione conclusiva registra un calo di tensione, una riduzione di quell’impellenza che l’opera di Johns possedeva nel suo momento decisivo – così gravido di conseguenze per il futuro Pop, Minimal e concettuale – e non sembra consentire alla mostra di spostare il giudizio storico sull’artista.
‒ Simone Ciglia
New York // fino al 13 febbraio 2022
Jasper Johns: Mind/Mirror
WHITNEY MUSEUM OF AMERICAN ART
99 Gansevoort Street
https://whitney.org
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