Arte comunitaria: che cos’è e come si mostra
Christian Caliandro torna a parlare di arte comunitaria, incorporando, a partire da questo nuovo capitolo, frammenti tratti dal dialogo con gli studenti durante le lezioni del corso di Linguaggi dell’arte contemporanea di quest’anno presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia
“Tu credi che i sogni possano farti conoscere quello che sta per accadere?”
Wes Craven, A nightmare on Elm Street, 1984
25 ottobre 2021. Ciò che John Cage obiettava a Glenn Branca riguardo all’esecuzione, nel luglio 1982, del pezzo Indeterminate Activity of Resultant Masses, quando diceva che la rottura dell’amplificatore era stato l’unico vero momento di “freedom from intention”, di libertà dall’intenzione. La sua obiezione principale dunque era contro il dominio di ogni aspetto della performance da parte dell’autore/compositore; non c’è spazio per il caso, per l’imprevisto o per la voce individuale, e Glenn Branca è in questo caso il maresciallo, il condottiero, il duce: trasferendo tutto questo sul piano sociale e politico, Branca secondo Cage “non vorrebbe vivere affatto in una società”, e le implicazioni di tutto questo conducono così a “qualcosa che assomiglia al fascismo”.
Mentre, la musica di Cage stesso può essere eseguita DA CHIUNQUE, OVUNQUE, IN QUALUNQUE MOMENTO.
COME MOSTRARE L’ARTE RELAZIONALE
17 novembre 2021. Rossella: “Dal momento che tutto è considerato arte (per esempio le challenge proposte sui social che sono vere e proprie opere d’arte, oppure ‘Food’ di Gordon Matta-Clark), come si capisce effettivamente se si tratta di un’opera d’arte o meno?”
Secondo me, è presente un elemento che ci permette di distinguere, un elemento che a sua volta viene potenziato da questa dimensione collaborativa e collettiva: lo stile. Questo elemento, in un’opera o in un artista, è un fattore che a noi sembra indefinibile ma in realtà è la cosa più resistente.
“Quindi per avere il riconoscimento di un’opera bisogna che intervenga la critica d’arte?”
Normalmente sì, però il problema fondamentale è che anche la critica d’arte non funziona nella versione precedente, ovvero noi non possiamo adattarla. Probabilmente questo è stato l’errore principale di Nicolas Bourriaud in Estetica relazionale, ovvero pensare che l’opera relazionale possa essere trattata da un punto di vista espositivo e di conseguenza anche critico come le opere precedenti. Anche la scrittura critica dunque deve adattarsi. Una delle altre conseguenze è che non solo l’opera se non la viviamo difficilmente possiamo dire che la stiamo costruendo, ma per lo stesso motivo l’opera non può essere esposta secondo il dispositivo tradizionale, ovvero quello della mostra. L’esposizione di opere reazionali è un altro paradosso: anche la mostra dovrebbe cambiare, poiché non è adatta a questo tipo di esperienze. Per me, la scrittura critica deve porsi sullo stesso livello dell’opera, accompagnando gli artisti in una chiave più esperienziale ed esistenziale. Anche Carla Lonzi, ad esempio, imputa al critico questa distanza e questo potere quasi dispotico che quest’ultimo esercitava ed esercita tuttora sull’opera, lo stesso potere che l’artista ha sullo spettatore.
“Ci sono delle qualità di base che si dovrebbero ricercare in un’opera per definirla tale?”
Assolutamente sì. Sicuramente l’elemento dello stile citato precedentemente è fondamentale. Giulio Paolini negli Anni Novanta offre questa breve definizione: “In definitiva, lo stile è, per definirlo in due parole, l’impronta che rimane malgrado l’opera ed il suo autore. Il segno che, alla fine, si sente e si vede. Inevitabile, incomparabile, ma assolutamente involontario nonostante l’oblio ostinato entro cui l’autore tenta ogni volta di costringerlo. Lo stile si afferma dunque come elemento primario della soluzione chimica che regge la concezione e la realizzazione dell’opera e solo in quel momento che lo stile parla chiaramente, dice la verità solo quando è costretto al silenzio”.
ARTE COMUNITARIA E COLLETTIVITÀ
Dunque, contrariamente a quel che si pensa, lo stile di un’opera o di un artista non dipende dalla sua intenzione o dalla sua volontà. (…)
Anche in un gruppo musicale, per esempio, il fattore collettivo è fondamentale: i membri di molte band, una volta che queste si sono ‘sciolte’, non hanno avuto più lo stesso impatto, proprio perché era lo “stare-insieme” la caratteristica più importante. Un altro elemento fondamentale dunque dell’opera relazionale è proprio questo: la somma degli elementi costituisce più delle singole individualità, non è un assemblaggio di individui o una somma di monologhi. Alla fine degli Anni Sessanta, analizzando le testimonianze di numerosi artisti (protagonisti dell’arte concettuale, del minimalismo e della Land Art), ci si accorge che provavano per certi versi una grande invidia nei confronti dei gruppi rock. Artisti come Dan Graham o Walter De Maria (che per poco non è diventato il batterista dei Velvet Underground), in alcune interviste, si riferiscono alla purezza di quella forma artistica rispetto ai condizionamenti a cui sono sottoposte le opere d’arte visive, come ad esempio nel loro rapporto con il mercato, con i musei o con i collezionisti, ma anche alla forte capacità della musica rispetto all’arte visiva di penetrare istantaneamente nell’immaginario collettivo, e di plasmarlo.
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“È la vecchia storia di sempre, gli individualisti sono fatti così: ognuno pretende di essere il centro dell’universo, così ogni accordo risulta impossibile… Ma la mostra presenta le cose come se quella società ideale, in qualche modo, fosse esistita davvero…” (Harald Szeemann in Nathalie Heinich, Harald Szeemann. Un caso singolare, Johan & Levi 2021, p. 37).
‒ Christian Caliandro
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