“Quando torneremo a viaggiare…” Nenia cantilenante, pronunciata a voce alta, scritta, urlata per quasi due anni da moltissimi di noi. Perché è innegabile che l’accrescimento culturale dato dal viaggio non solo è impagabile, ma (come abbiamo duramente imparato a nostre spese) non è sostituibile. I tiepidi placebo alla cena fuori dati dall’asporto, le stampe delle opere a farci ricordare quelle solitarie racchiuse nei musei, le riprese della camera fissa posta davanti al palcoscenico che simula il teatro: tutto in peggio, ma tutto è possibile anche in quarantena. Tutto tranne l’esperienza assoluta e totalizzante del viaggio. E ora che piano piano ci avviamo nella lenta guarigione della ripartenza, e potremo sempre di più allontanarci dalle nostre gabbie dorate, è forse anche il momento di rivedere il nostro rapporto con il turismo di massa, scoprendo realtà un po’ meno battute e apprezzando il non ordinario, provando a capirlo maggiormente.
Un grosso gap comunicativo che viviamo nel rapporto tra Occidente e Islam è anche quello che riguarda il turismo. Molti dei Paesi a forte vocazione turistica del mondo arabo, infatti, riescono a farci entrare in contatto con ciò che è definibile come “archeologico”, come ad esempio le piramidi in Egitto o Petra in Giordania, ma difficilmente a farci approfondire l’aspetto più storico dell’Islam. Oltre all’ovvia motivazione del rispetto, che rende i luoghi di culto a esclusivo appannaggio di chi vi si reca per la preghiera, vi è anche una motivazione più complessa, legata alla nostra incapacità di sapere dove guardare, e cosa cercare.
LA CULTURA DEL PRIMO ISLAM
Esiste un periodo storico meravigliosamente complesso in Medio Oriente che inizia con la rivelazione dell’Islam e prosegue per alcuni secoli, in cui la dottrina ancora non si era consolidata, e all’interno della religione e della sua rapida espansione trovavano ancora posto tradizioni e forme comunicative precedenti. Questi secoli vengono ad esempio brillantemente raccontati nel romanzo Samarcande dello scrittore franco-libanese Amin Maalouf (pubblicato nel 1998, e purtroppo in Italia è ormai praticamente introvabile in assenza di future ristampe), che racconta la storia all’inizio dell’anno 1000 di Omar Khayyam, filosofo, astrologo e matematico, realmente esistito, e del suo manoscritto di poesie, dei Robaïyat, ovvero componimenti poetici in quattro strofe completamente ispirati all’amore per il vino e per le donne. Già, perché ancora a tre secoli dalla nascita di Maometto si beveva vino nei Paesi convertiti e si parlava di donne nelle poesie. Ma non solo, erano anche le donne stesse a scriverne, come ad esempio al-Khansà, vissuta proprio nel periodo del primissimo Islam. La “camusa” (così si traduce il suo nome che letteralmente significa gazzella, ma nel parlato è un aggettivo per definire un naso particolare) è da secoli celebre per le sue elegie funebri, dedicate ai numerosi fratelli e figli morti in guerra.
IL DESERTO DI GIORDANIA: NON SOLO PETRA
Isola di pace in una delle zone più turbolente del pianeta, il Regno di Giordania è negli anni divenuta una meta turistica gettonatissima, soprattutto grazie all’enorme notorietà del sito archeologico di Petra. La città nel deserto, creata dagli Edomiti e poi capitale del regno dei Nabatei, popolo di guerrieri e commercianti, dal suo ritrovamento a opera dell’orientalista svizzero Burckhardt nel 1812, non ha mai smesso di attrarre visitatori.
Eppure il regno del deserto non è tutto qui, ha da offrire molto di più, anche se spesso ai turisti in cerca della foto da mettere sui social questo non interessa. Spesso proposto con il nome di “castelli del deserto”, esiste un itinerario che esce dai sentieri più battuti (letteralmente) e si spinge nel cuore del nulla su quelle che furono le grandi rotte mercantili delle carovane per scoprire questi avamposti del passato.
Nonostante il percorso turistico a volte si spinga a includerne altri, quelli da reputarsi originali (nel senso di correlati tra loro a livello storico) sono tre, posti nei pressi del confine con l’Iraq, due (il Castello di Haraneh e il Castello di Amra) costruiti nell’VIII secolo dagli Omayyadi mentre il terzo (il Castello del Walid) fu eretto inizialmente verso il I secolo a.C. dai i Romani guidati da Pompeo, e dopo l’abbandono ricostruito nel VIII secolo dagli Omayyadinei.
IL CASTELLO DI QUSAYR AMRA
Se due su tre di questi castelli si possono facilmente riconoscere come punti d’accoglienza tanto quanto di difesa (in effetti si tratta di autentiche fortezze), è il terzo a porre i maggiori dubbi e a essere affascinante anche dal punto di vista artistico, oltre che da quello storico e architettonico.
Il castello di Qusayr Amra, riscoperto nel 1898 da Alois Musil e dal 1985 Patrimonio UNESCO, è infatti sorprendente per via degli affreschi in esso contenuti, straordinari sia per il valore artistico, sia per la testimonianza che essi rappresentano.
Questa struttura di dimensioni modeste (è il più piccolo dei castelli del deserto), composta da varie sale comunicanti tra loro, è formata da una Sala delle Udienze dalla pianta quadrangolare di circa 11 metri per lato decorata su tutte le mura da affreschi attribuiti dagli esperti ad artisti arabi o siriani influenzati notevolmente dal linguaggio figurativo romano e bizantino: se da un lato qui troviamo dipinti rappresentanti l’attualità dell’epoca, come ad esempio la raffigurazione dei sei re nemici dell’Islam, tra cui il re persiano Cosroe, il Negus d’Abissinia, il re dei visigoti Roderico e l’imperatore di Bisanzio, dall’altro scopriamo riferimenti e influenze ancora molto legate al mondo esterno, come una rappresentazione di Nike che incorona una figura femminile.
LA RAFFIGURAZIONE DELLA DONNA
Ed è proprio il ruolo della donna a sorprendere in questo ciclo pittorico, soggetto non comune a tutta l’arte islamica successiva, e men che mai nelle vesti (o nelle non vesti in cui la troviamo qui). In un’altra sala compare la figura di una donna con il seno nudo che esce dalla vasca da bagno in un hammam. Se da una parte può sorprendere il soggetto e come esso è raffigurato, dall’altra è interessante che la sua raffigurazione non abbia alcun carattere religioso, ma solo ornamentale. Nei secoli successivi sempre di più l’arte dei Paesi mussulmani si sposterà su tematiche legate al credo, ed è proprio per questo che è fondamentale riscoprire questo proto-Islam figurativo in cui i lacci erano ancora deboli. Al fianco della figura principale si trova un’ancella, mentre sullo sfondo uomini incuriositi osservano la scena. Vista la posizione centrale della donna, è stato supposto che la ragazza fosse la serva preferita del califfo. I soggetti sulle altre pareti sono altresì interessanti, perché raffigurano momenti della vita quotidiana come partite di caccia, oppure manovali quali falegnami, fabbri, muratori e ancora commercianti in sella a dromedari.
CASTELLI DEL DESERTO IN GIORDANIA. L’HAMMAM
Attraversando un breve disimpegno ci si trova nel bagno turco (hammam), che sul modello classico è diviso in tre elementi: due tepidarium e un calidarium. Nella prima stanza si cela un altro mistero del castello, a tutt’oggi senza risposta: al centro della volta a botte compare infatti il ritratto di un uomo che sembra essere la rappresentazione artistica di Gesù Cristo. Sulla parete laterale invece si trovano alcuni buffi soggetti allegorici, come ad esempio un orso che strimpella un banjo.
Nel secondo tepidarium troviamo un altro nudo femminile, che, seppur altrettanto sorprendente rispetto al primo, ha chiaramente un altro significato, ovvero quello della maternità; la donna è infatti riprodotta con un neonato tra le braccia. Nel calidarium infine troviamo un affresco che ci fa capire qualcosa in più sulle conoscenze astronomiche dell’epoca: qui infatti è raffigurata la volta celeste, l’Universo allora conosciuto, e lo Zodiaco.
CASTELLI DEL DESERTO IN GIORDANIA. LA RISTRUTTURAZIONE
Anni di abbandono hanno ovviamente inciso sullo stato di conservazione delle opere, ma anche grazie a un grosso lavoro di ristrutturazione e restauro finanziato dai francesi oggi il castello sta tornando al suo antico splendore. E se Petra resta il motivo per acquistare il volo, è bello sapere che nel mezzo del deserto c’è una capsula del tempo dove l’anima umana è sopravvissuta attraverso la bellezza per raccontarsi a noi oggi.
– Federico Silvio Bellanca
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