Alla scoperta di Dakar con il Festival Partcours ideato da un italiano
Per la decima edizione del festival che unisce istituzioni culturali e spazi meno noti di Dakar, siamo andati nella capitale del Senegal e abbiamo incontrato il ceramista toscano Mauro Petroni, ideatore della rassegna
Affacciata sull’Atlantico dalla punta più occidentale del West Africa, Dakar è una città tanto caotica e stressante, quanto viva e vibrante.
La Dakar delle banlieue, dell’impressionante speculazione edilizia che divora a ritmo frenetico spiagge e giardini, della povertà e dell’inquinamento e quella della mondanità, dei grandi eventi internazionali, dell’arte e del design, convivono in un improbabile e precario equilibrio. Come spesso accade, sono anzi i travagli, le miserie e le minacce prodotti dalla contemporaneità a nutrire l’immaginario degli artisti, ad alimentare le riflessioni degli intellettuali, a generare forme d’espressione alternative. La grande Biennale dell’Arte Africana Contemporanea, che coinvolge artisti provenienti da tutto il continente, il nuovo Dakar Music Expo, il festival dell’industria musicale senegalese e africana, le Fashion Week sono soltanto alcuni dei grandi appuntamenti che arricchiscono il calendario culturale della capitale senegalese. A questi si sommano tutte le attività proposte periodicamente dagli istituti culturali internazionali, tra cui l’Istituto Francese, il più finanziato e attivo, il Goethe Institut, il Cervantes e, da gennaio 2020, anche il nuovo Istituto Italiano di Cultura a Dakar. Oltre alle iniziative delle associazioni e dei centri culturali diffusi su tutto il territorio.
Anche la scena musicale, la club culture e la night life della città, dopo essersi fermate per qualche mese per l’ultimo lockdown estivo, hanno ripreso a pieno ritmo e le notti della capitale sono tornate alla vitalità che da sempre agita le nottate dei ragazzi di Dakar. L’età media del Paese è d’altra parte estremamente bassa (18 anni!) e la vita all’aperto è la normalità, per clima e per cultura. Due elementi che hanno reso relativamente lieve l’impatto della pandemia di Covid sul Paese.
DAKAR E IL FESTIVAL PARTCOURS
Ma la ricchezza della scena creativa è testimoniata soprattutto dalla presenza di un grande numero di atelier, boutique, gallerie d’arte e piccole attività artigianali, specializzate nella lavorazione del legno, dell’argento, del ferro e dei tessuti. Per andare alla scoperta di queste realtà, perse in immensi quartieri, tra strade polverose e grandi palazzoni di cemento armato, il modo migliore, probabilmente, è visitare Dakar durante Partcours, il festival itinerante della creatività, ideato e curato dal ceramista italiano Mauro Petroni, che ogni anno, da un decennio a questa parte, mette insieme gran parte dei soggetti privati e istituzionali che compongono la fitta trama dei protagonisti della scena culturale della capitale.
Tra novembre e dicembre, per tre settimane, il Partcours propone, a un ritmo incalzante, una maratona scandita da appuntamenti quotidiani con vernissage, eventi di videomapping e arti digitali, “ballate architetturali”, performance e party. Un festival di percorsi creativi alternativi che mette alla prova la resistenza di un nutrito pubblico di appassionati, artisti e promotori culturali. Il tutto è organizzato con un modello molto interessante di programmazione, disegnato per andare alla scoperta dei vari quartieri della città e delle loro principali risorse creative. Un weekend è dedicato a Plateau, il vero cuore istituzionale della città, con i suoi ampi viali alberati e i suoi immensi palazzi governativi. Una giornata intera all’esplorazione di Medina, l’antico quartiere degli artigiani e dei mercati, un’affascinante e caotico girone dantesco, brulicante di vita e minuscole attività commerciali. Un’altra alle più residenziali zone di Fann e Mermoz, affacciate sul lungomare che costeggia quasi tutta la parte centrale della città, su cui ogni sera, all’ora del tramonto, migliaia di senegalesi si riversano in massa per fare jogging e altre attività sportive. E così via, senza sosta, per quasi tre settimane.
Non mancano gli eventi realizzati anche nelle più remote banlieue dell’area metropolitana, le zone più inaccessibili e sconosciute al pubblico internazionale, che pure sono in grado di regalare sorprese. Ogni quartiere, nonostante l’inarrestabile avanzare della speculazione edilizia che abbatte vecchie costruzioni, anche di pregio, per costruire monolitiche e anonime torri di cemento, conserva una propria identità, un suo caratteristico mood.
COME FUNZIONA IL FESTIVAL PARTCOURS
Siamo stati a Le Manège, la sede espositiva dell’Istituto Francese, un antico maneggio per cavalli di epoca coloniale, per la mostra collettiva di arti multimediali e performative Les Filles de Mawu. All’Istituto Italiano di Cultura, per l’esposizione Sunu Dund, in cui sette artisti senegalesi hanno proposto opere originali ispirate all’Inferno di Dante. Siamo saliti sulla terrazza della galleria super cool di Agence Trames, un edificio post-industriale dal sapore quasi berlinese, per il party inaugurale realizzato per festeggiare i dieci anni della manifestazione. E poi in abitazioni private di galleristi e collezionisti, in boutique artigiane e atelier di moda, fino a salire sul pullman dell’organizzazione del festival, per raggiungere le piatte e sabbiose banlieue di Keur Massar e Rufisque.
Non tutto è perfettamente allestito, gli orari dei vernissage sono alquanto elastici, ma questo non toglie nulla al piacere di scoprire la città attraverso l’arte, comprenderne le tendenze espressive, incontrando artisti e protagonisti della scena culturale, ambasciatori e rappresentanti istituzionali, i presenzialisti che non si perdono un appuntamento, la gente qualunque che vede movimento e si affaccia a dare un’occhiata o a scroccare del finger food o un calice di vino dal buffet di benvenuto. Nel complesso, un evento che meriterebbe forse una maggiore visibilità internazionale, perché, al di là del livello delle esposizioni, permette di scoprire una città in costante fermento, al centro dell’interesse di molte potenze internazionali (dalla Cina alla Turchia, fino ai Paesi del golfo arabo), che stanno investendo qui grandi risorse.
Visitare Dakar durante Partcours, quando in Italia le temperature scendono e l’inverno si fa sentire, permette di scoprire un mondo nuovo in pochi giorni, comprare opere interessanti a prezzi più che ragionevoli, fare shopping tra boutique e botteghe artigiane di livello. E magari concedersi una gita al mare nella vicina e placida Petite Cote (ad appena 100 chilometri dalla capitale) o, meglio, nell’affascinante regione meridionale della Casamance (raggiungibile in 40 minuti d’aereo). In attesa del grande evento della Biennale di maggio e giugno, ci poniamo una domanda: meglio andare dieci volte a di fila a Miami per Art Basel, o fare tappa, una volta ogni tanto, anche nella capitale culturale della West Coast africana?
INTERVISTA A MAURO PETRONI
Il ceramista toscano Mauro Petroni, originario di Lucca ma di stanza a Dakar dal 1983, è una figura chiave della vivace scena artistica della capitale senegalese. Ha ideato il Partcours, che quest’anno compie dieci anni, e si occupa dell’organizzazione della sezione OFF della Biennale dell’Arte Africana Contemporanea, tra gli appuntamenti culturali più importanti di tutto il West Africa. Ci ha accolto nel suo atelier di Les Almadies, dove disegna e lavora le sue pregiate ceramiche e in cui la domenica pomeriggio ospita amici e appassionati d’arte, con cui conversa davanti a un caffè e a una fetta di torta fatta in casa.
Abbiamo approfittato della sua ospitalità per fargli qualche domanda sulla sua lunga vita in Senegal, sugli eventi che organizza e, più in generale, sulla scena culturale della città.
Qui a Dakar ti conoscono tutti, nel mondo della cultura e non solo, ma per i lettori italiani dobbiamo necessariamente partire dall’inizio della tua storia senegalese, per spiegare come tu sia diventato uno dei personaggi più influenti della Capitale, almeno in questo ambito. Sei arrivato a Dakar nel lontano 1983…
Sì, sono arrivato come un normale viaggiatore, per poi fermarmi a lavorare come apprendista, con l’idea di fare una breve esperienza qui. Sono passati quarant’anni! Raccontare tutto quanto il mio percorso è però impossibile: l’Africa, la ceramica, l’atelier, il mare davanti… il riassunto di tutto sta in una parola: “libertà”.
La tua prima traccia sulla città l’hai lasciata proprio con le tue ceramiche, puoi raccontarci alcuni dei lavori più importanti che si possono incontrare andando in giro per Dakar?
Il mio maestro mi ha iniziato a questo uso della ceramica destinata all’architettura, i grandi esempi più conosciuti sono arabi e poi spagnoli: Gaudi, Miró… Lavorare sull’architettura significa conoscere la città, la gente, stare assieme. In fin dei conti è il riappropriarsi di un posto, di un tempo. Restaurare alcuni monumenti che datano dalla fondazione di Dakar, come il mercato Kermel (lo storico e centralissimo mercato di alimentari e artigianato, uno dei luoghi più importanti della capitale, N.d.R.), la stazione ferroviaria (il bellissimo edificio in stile coloniale costruito negli Anni Dieci e recentemente restaurato, N.d.R.) significa non solo misurarsi con delle capacità tecniche, ma anche con un’importante eredità culturale. Entrare a fondo nella storia, diventare un cittadino cosciente. Ma anche i piccoli lavori per privati, decorazioni di ville, targhe di case tracciano una mia personale mappa di Dakar. Ogni tanto, passeggiando in un quartiere qualsiasi, capito davanti a una insegna in ceramica fatta vent’anni fa, che non mi aspettavo più di ritrovare!
La decima edizione di Partcours è cominciata davvero “col botto”, con esposizioni molto partecipate e grandi feste d’inaugurazione. Com’è nata l’idea di organizzare questo tipo di festival itinerante?
Dieci anni fa vivevamo un periodo di grande fermento: la Biennale del 2012 si era appena conclusa con un senso di maturità acquisita, e l’interesse per la cosa culturale era palpabile. Un artista (Youssou Ndour) era ministro della cultura e Dakar affermava sempre di più la sua reputazione di capitale artistica. Con alcuni amici e colleghi, abbiamo avuto questa idea di creare una manifestazione comune, un evento che riunisse in uno spazio-tempo ridotto vari vernissage, distribuiti in un itinerario artistico per quartiere. Mai avremmo pensato di percorrere una strada di dieci anni e di creare un evento che, dopo la Biennale, si sta imponendo come il più importante del Paese per le arti plastiche e visive.
LA SCENA CREATIVA DI DAKAR
Vedendo anche com’è organizzato il catalogo, si comprende come l’idea di base di Partcours sia quella di disegnare una sorta di mappa creativa della città. Tu stesso mi hai raccontato come andare in giro per botteghe artigiane e atelier sia stato per te il modo migliore per scoprire quartieri e zone in cui raramente si passa.
In effetti l’unico modo per conoscere una città così multiforme come Dakar è quello di avvicinarsi ai luoghi, alla gente. Questa specie di “mapping” personale di cui parlavo prima mi è molto servito per la conoscenza del territorio, per organizzare gli avvenimenti che sono seguiti, l’OFF della Biennale e il Partcours.
Fossi un turista, vorrei sicuramente visitare Dakar durante questi grandi eventi. Hai mai pensato a essi come a un possibile strumento di promozione turistica del Paese e della capitale?
È un’evidenza! E, anche se in modo ristretto, succede già ora. Per la Biennale, il Ministero del Turismo è partner della manifestazione e c’è un grande afflusso di “turisti culturali”. In passato sono anche stati predisposti voli charter per la visita, pure dall’Italia, organizzati all’epoca da una rivista che credo non esista più, Africa Mediterraneo.
E per il Partcours s’incontrano sempre più persone che vengono in questo periodo per approfittare della manifestazione. Vero però che non esiste una vera promozione turistica, un’attività tesa a “vendere un prodotto”, ma forse è meglio così, mi piace di più questo aspetto spontaneo, di gente che viene perché ne ha sentito parlare o l’ha scoperto sui social.
Al di là dei contenuti, quello che colpisce di Partcours è anche la sua dimensione mondana e, scusa la parola, “cool”. Ma oltre che nelle sedi delle istituzioni culturali e nelle gallerie più prestigiose della città, organizzi mostre e attività anche in banlieue. Cosa c’è di interessante in questi quartieri? Cos’è possibile scoprire nelle zone meno centrali della città?
Scopri sempre qualcosa, a volte solo polvere! Ma è bello evitare di rinchiudere l’arte nelle gallerie del centro, dove la dimensione mondana può deviarci dal nostro intento. Alla fine quello che è importante è suscitare interesse, e questo succede, in alto e in basso, al centro e in banlieue.
LA SEZIONE OFF DELLA BIENNALE DI DAKAR
Oltre a Partcours, ti occupi anche dell’organizzazione dell’OFF della Biennale dell’Arte Africana Contemporanea di Dakar, un evento importantissimo, che magari in Italia non è così conosciuto come meriterebbe. Puoi parlarci della Biennale in generale e del “tuo” OFF?
La Biennale esiste dal 1992. Un piccolo miracolo. Normalmente si parla dell’Africa per crisi, colpi di stato, carestie… per una volta si celebra l’Africa creatrice! La manifestazione è riuscita a sopravvivere, a imporsi, a farsi conoscere. C’è dunque questa Biennale ufficiale, con un curatore e con artisti invitati. Mentre l’OFF occupa il terreno delle manifestazioni autonome e spontanee. Nel 2002 mi sono reso conto che esisteva questa energia: ho raccolto tutti gli input e li ho messi in una guida-programma che dava le informazioni essenziali su ogni realtà: spazio, luogo, date. A ognuno abbiamo dato uno striscione con il logo OFF. La città ne era piena. Da 50 luoghi siamo passati, in vent’anni, a 350. Il pubblico è stato conquistato dall’evento e adesso si muove di più per gli eventi paralleli che per quelli ufficiali.
Cosa ti aspetti dall’edizione 2022, in programma dal 19 maggio al 21 giugno? Anticipazioni?
So solo che ci sarà tanto, troppo lavoro e, come al solito, poco tempo!
Visto il lavoro che svolgi per Partcours e Biennale, penso tu sia una delle persone più titolate per provare a fare un quadro generale della scena culturale e artistica di Dakar, che, almeno ai miei occhi, pare più viva e dinamica di quella di molte altre capitali europee. Come definiresti, in generale, la scena di Dakar e come si è evoluta nel tempo?
Su questo si può scrivere un libro! Al momento dell’indipendenza (1960) non esisteva molto, ma il Senegal aveva come presidente un uomo di grande cultura, scrittore, poeta e critico: Léopold Sédar Senghor. Al di là delle considerazioni politiche, dobbiamo dire che fu un vero stimolo per la nascita di una coscienza artistica. Tra l’altro fondò subito una scuola d’arte, che è rimasta famosa e che ha creato una generazione di artisti. Una volta data una spinta, le cose vengono a seguire, con l’insegnamento e con l’emulazione.
Nel 1992 fu creata la Biennale, che diventava più importante a ogni edizione. E l’arte contemporanea si è fusa nelle abitudini e nel vissuto della città. Non si può certo parlare di fenomeno popolare, ma di stimolo, di scoperta, di consuetudine. Fino ad arrivare alla dimensione festosa di cui parlavi.
PETRONI E LA CERAMICA
Tuttora continui lavorare al forno, a produrre ceramiche. Ti ho visto fare sopralluoghi in tuta e “sporcarti le mani” insieme al tuo scenografo di fiducia, Khalifa Ababacar Dieng. Ho capito che in fondo, oltre che un curatore, ti senti ancora un artigiano, che ti piace fare, oltre che pensare. Forse sbaglio, ma mi sembra che quest’attitudine faccia anche parte del lavoro di molti artisti e designer senegalesi, che nascono magari artigiani e spesso adoperano materiali di scarto per le loro creazioni.
Credo che tutti gli artisti contemporanei, dovunque nel mondo, abbiano una tuta. A me piace questa dimensione artigianale, sono toscano e per me l’arte si fa nelle botteghe, non si tratta di un lavoro individuale, ma di un’attività corale!
Qui tutto è plurale, gli artisti si mescolano e si contaminano a vicenda. E usano spesso quello che vedono, quello che trovano per strada.
In fondo anche l’esposizione di Partcours che hai organizzato quest’anno nel tuo spazio di Les Almadies mette a confronto, come in un gioco di specchi, arte e artigianato. Ce ne vuoi parlare brevemente?
La mostra cerca di entrare con moderazione nella polemica attuale sulla restituzione delle opere d’arte, di tutto quello che fu sottratto dai predatori coloniali alle civiltà africane. Di questa cosa molto ingiusta e brutale si fa un gran parlare e si arriva al tema dell’appropriazione culturale, a sostenere per esempio che Picasso non aveva il diritto di ispirarsi a delle maschere che erano state depredate, e ancora e ancora…
Come sostenere che l’ispirazione dell’artista può essere senza colore e senza confini? Che un pezzo etrusco può somigliare a una terracotta del Mali? Ci sono mille esempi e mille incroci nell’inconscio: noi ne mostriamo qualcuno che viene dalle nostre esperienze, attraverso i nostri manufatti che sono messi a confronto con pezzi africani tradizionali, che non abbiamo mai voluto copiare ma che pure somigliano ai nostri lavori. La mostra si intitola Miroirs, Specchi, ed è tutto dire…
Un’ultima domanda sul futuro. Tuo figlio Theo, oltre a essere un grafico (ma anche dj, producer e tanto altro ancora), pare avere un talento naturale per le relazioni. Magari lui non ci pensa proprio, ma ti piacerebbe se decidesse un giorno di seguire le tue orme e proseguire il tuo lavoro qui?
Deve piacere soprattutto a lui! Creare una bottega di famiglia a Dakar, invece che sul Lungarno… anche questo è uno specchio!
‒ Marcello Giannangeli
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