Marco Strappato e il mondo a strisce
Classe 1982, natali a Porto San Giorgio e domicilio londinese, Marco Strappato gioca abilmente coi complicati meccanismi e paradossi della visione. Con collage, fotografie, installazioni e video, seleziona con cura materiale preesistente, tra cui immagini, spezzoni di documentari e dialoghi cinematografici, per manipolarlo e creare cortocircuiti spazio-temporali. Il paesaggio - fisico, mentale ed emozionale -, il cinema, la propria storia personale e familiare diventano nelle sue mani elementi da sabotare per rileggere la realtà.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Vedere e potere di Jean-Louis Comolli e Il paesaggio di Michael Jakob. L’ultimo acquisto è invece il primo esteso catalogo monografico sul lavoro di Rosa Barba, White Is an Image. Sono cresciuto con il trip hop e quindi la scena di Bristol (Massive Attack, Tricky, Portishead…) tra bassline potenti e groove ciclici. Ho amato molto anche Richard Hell e Gil Scott-Heron. E poi la batteria di Billy Cobham e la tromba di Enrico Rava.
I luoghi che ti hanno affascinato.
Belgrado, per la sua sovrapposizione di culture, influenze e stili diversi, un ponte tra Oriente e Occidente. Ho vissuto un anno e mezzo nell’East End londinese, che rimane una delle zone più creative della città: mi manca quell’atmosfera ed è là che sto per tornare. Un luogo fondamentale rimane comunque il mare del mio paesino nelle Marche, dove sono nato: quella linea all’orizzonte ha profondamente segnato la mia vita.
Le pellicole più amate.
L’avventura di Michelangelo Antonioni, Fata Morgana di Werner Herzog e The Draughtsman’s Contract di Peter Greenway.
Artisti guida?
Hiroshi Sugimoto per la serie dei Mari, le opere ambientali di Daniel Buren, la capacità di Mark Leckey di far coesistere elementi eterogenei all’interno del proprio lavoro, il modo in cui Rosa Barba mette in scena i paesaggi con la macchina da presa e il sentimentalismo di alcuni film di Steve McQueen. Tra i giovani artisti, Adrien Missika è uno dei miei preferiti.
Giochi sui meccanismi e sui paradossi della “visione”, attraverso la selezione e il conseguente sabotaggio di materiale preesistente. Cosa t’interessa conservare e cosa scartare?
M’interessa attivare un processo di “riposizionamento” del senso e di “riattivazione” dello sguardo su quell’enorme bacino di immagini che caratterizzano la vita del nostro tempo. Si tratta di scegliere fra ciò che va salvato dall’oblio e ciò che può essere invece scartato, in modo da creare dei punti fissi da cui partire per invertire la tendenza del guardare alle cose in modo passivo.
Ci sono alcuni lavori, in particolare, dove hai posto al centro la condizione di cecità.
Nei lavori presentati nella mia prima personale B(b); B(m); B(w) su due pareti della galleria si contrapponevano due sistemi di segni. Da una parte B(b), in cui i caratteri del braille, ingranditi e dipinti, si stagliavano sul muro come una sorta di visualizzazione per vedenti. Su un’altra parete, invece, la scritta “BLIND”, composta da una serie di puntine bianche, diventava una superficie tattile, invisibile a un primo sguardo. Il terzo lavoro, B(m), che chiudeva il progetto, è invece un breve video in cui una corsa di non vedenti si trasforma in un’indagine sul limite fisico della vista, sulla tensione che essa provoca all’interno della nostra percezione della realtà.
Scavi anche nella tua storia individuale. Ti serve come punto di partenza per un discorso collettivo e quindi universale?
A un certo punto della mia ricerca ho deciso di prendere in esame quei documenti che nel corso degli anni la mia famiglia aveva prodotto e conservato, materiali preziosi con una loro valenza estetica. È stato sorprendente notare come molte di queste immagini potevano in realtà essere “sovrapponibili” a quelle di altri. Partito dal soggettivo, sono poi andato oltre…
Il paesaggio ha un ruolo fondamentale nel tuo lavoro. Come ti relazioni alla sua fisicità e alle sue potenzialità immaginifiche?
Chiaramente non si tratta solo di paesaggi fisici, ma anche mentali ed emozionali. Tra l’autentico e l’artefatto, l’esotico e il quotidiano, l’origine e la fine.
Sei partito dalla fotografia di un lago per costruire tutta una serie di opere interconnesse, creando nuovi cortocircuiti spazio-temporali. Una specie di “immagine” madre da cui generare tutto?
Considero il lago una metafora dell’immaginario, un luogo in cui “precipitano” e nascono le rappresentazioni. Tenendo presenti l’immagine di partenza (FakeLake n.1) e le sensazioni scaturite da quel luogo, ho creato una serie di lavori che – per associazioni formali e concettuali, rimandi visivi e testuali – riconducessero a quell’immagine iniziale.
Collage, video, fotografie, installazioni: quale di questi mezzi che utilizzi riesce a formalizzare al meglio le tue idee?
Per me è importante capire come questi mezzi, eterogenei, riescano a dialogare tra loro e con lo spazio.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #7
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