Il Monte di Portofino nelle fotografie di Gaia Cambiaggi
Un itinerario alla scoperta del Monte di Portofino, accompagnato dalle parole del giornalista Carlo Antonelli e dagli scatti della fotografa Gaia Cambiaggi
Anzitutto dobbiamo parlare de Il Monte. Il fatto che tecnicamente si chiami Parco Regionale di Portofino è una fesseria. È Il Monte, e basta. Altro disturbo da togliersi subito dai piedi è l’intelligenza degli alberi e della popolazione vegetale e dei funghi, poi, ci mancherebbe. L’abbiamo sempre sentita dentro, ben prima che Stefano e Anna ce la venissero a raccontare. Il Monte, subito appena ti avvicini, entra dentro le tue fibre e ti rende muschio tra i muschi, felce tra le felci. Subito. È un’entità superiore, un GGG enorme di cui vediamo fisicamente una grande zampa con le varie dita (mica cinque, di più), e anche un pezzo di caviglia. E il resto del torso e delle gambe e delle braccia è sparso dentro il polmone verde, le conche muscolose e insieme morbidissime e le alte vette appenniniche che sembrano nascere da mandibole chiamate (nel complesso) Entroterra.
Il Monte respira e ti fa respirare, subito. Il Monte ti cura se stai male, subito. Il Monte ti vuole bene qualunque cosa tu abbia combinato, immediatamente. E, se verrai in autunno (ovvero con 25 gradi di media), Il Monte ti accarezzerà e centomila corbezzoli ti faranno esplodere gli occhi. Altro che le misteriose sostanze che certamente assumeva Rubaldo Merello (pittore, 1872-1922) quando ossessionato cercava prima dei tempi di farci capire l’alterazione della percezione – anche gloomy – che sta qui ovunque e sulle cui tracce Gaia Cambiaggi si muove come un animale bipolare.
ALLA SCOPERTA DEL MONTE DI PORTOFINO
Scegliamo una strada tra le mille, scegliamo la via del mare. È un lungo dito cui arrivi scorrendo una specie di lunga venatura, da San Rocco di Camogli in giù. Fino alla Punta (Chiappa) e a Porto Pidocchio, nomuncoli che non rendono giustizia alla maestà del luogo, non a caso dedicato alla Madonna della Stella Maris, Madonna con tanto di cappelletta sullo scoglio-penisola appuntito, dove in modo avventuroso alcuni hanno fatto l’amore a ora tarda, con piena benedizione della Signora.
Se continui, anche con un vaporetto pubblico, la magnificenza delle dita del GGG diventa chiara, e la Storia viene fuori: i bunker di cemento grigio meravigliosi di una qualche Guerra Mondiale, la Cala degli Inglesi, la Cala dell’Oro (storie di pirati, reali), la Torre Saracena (che ricorda le frequentissime incursioni nordafricane), l’Abbazia di San Fruttuoso, regno di frati pescatori cattivissimi contro tutti, e la torre dei Doria con l’araldo stampato su un lato della leggendaria famiglia che ha fondato l’abbazia per ragioni ereditarie e dalla storia grandiosa che arriva fino a noi (la discendente Ginevra Doria, per dire, lavora con Paola Clerico al progetto espositivo Case Chiuse di Milano). E poi giù lungo il Parco Marino protetto fino alla grande scogliera – dalla quale precipitò la contessa Augusta – e girando l’angolo trovi la stessa Portofino.
IL PAESAGGIO MEDITERRANEO DEL MONTE DI PORTOFINO
Da lì risalendo ci buttiamo dentro il verde che è (again) pari a una botta di acido: tutto verde, verde di ogni tipo, macchia mediterranea vera (non tanto per dire), bacche, pini, fiori, agave, capanne che sembrano esplodere sotto la luce, rami secchi, di colpo il blu e luce dappertutto tra le ombre. Risalendo di nuovo la china fino alla seconda Vetta, passando per gli Olmi e piano piano fino ai dolmen di Pietre Strette, si torna a una delle basi, al vecchio albergo/sanatorio liberty abbandonato che guarda i due golfi (ci arrivi lungo una strada stranamente piatta, dove, senza contare poco dopo il bosco di lecci secolari detto Bosco delle Fate, è subito Signore degli Anelli).
Si scende, pieni di luce, e si approda da Nicco, dal 1974 grandi cocktail con un servizietto di snack, immobile negli anni, e tra questi un piccolo würstel trafitto tagliato in due da un pezzetto di gruviera. Il tempo è sparito da tempo. Di nuovo un golfo, il Golfo Paradiso. Nell’Hotel Paradis (ora ovviamente vuoto), Nietzsche – che veniva spesso – scrisse Aurora.
‒ Carlo Antonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #63
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