Futuro Antico. Intervista a Michelangelo Frammartino

Primo appuntamento con la rubrica di Spazio Taverna – luogo espositivo e di ricerca inaugurato a Roma a ottobre 2020 – che raccoglie le visioni dal futuro di alcune delle voci più originali del contemporaneo. Alla ricerca di antidoti antichi per interpretare la complessità moderna

La prima voce della rubrica curata da Spazio Taverna è Michelangelo Frammartino (Milano, 1968), il cui linguaggio si muove tra il cinema e le arti visive. Qui ripercorre la strada che l’ha condotto all’oggi e guarda al futuro senza dimenticare le origini.

Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo dell’arte?
A livello diretto la mia esperienza più affascinante è stato l’incontro con Studio Azzurro. Da giovane studente di architettura avevo conosciuto Paolo Rosa e l’avevo incontrato più volte. La loro concezione di interazione e di immagine come presenza, oltre che la dimensione conviviale dell’immagine, mi avevano riempito la testa e il cuore. Mi permetto di dire che in quegli anni, tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, erano poche le occasioni di incontro e quella fu molto preziosa per me. Ancora oggi, quando rifletto sullo statuto dell’immagine, mi porto sempre dietro le parole di Paolo, che per me fu quasi un maestro, anche se non sono mai stato a bottega da lui.

La tua opera più importante come videoartista è La Casa delle Belle Addormentate. Puoi raccontarci la sua genesi?
L’opera nasce alla fine del mio percorso alla scuola di cinema, quando l’incontro con alcuni autori come Paolo Rosa, ma anche Giacomo Verde, determinavano un clima particolare nella Milano di quegli anni, che investiva molto sul rapporto tra arte e nuove tecnologie, se pur molto semplici e rudimentali, quasi francescane. In quegli anni la videoarte era più avanzata rispetto al cinema: una volta Peter Greenaway disse in un’intervista che quello che aveva fatto per la ricerca Bill Viola non l’aveva fatto Martin Scorsese!

Torniamo alla Casa delle Belle Addormentate.
Avevo realizzato l’installazione con l’appoggio di Studio Azzurro, che mi prestò l’attrezzatura necessaria. Si trattava di un’iniziativa di Filmmaker, un festival di cinema nato nel 1978 come una piccola forma di resistenza, che intorno al 1997 cominciò a produrre e finanziare progetti. Così fui individuato da Daniele Maggioni che mi propose di realizzare qualcosa per il festival e io proposi un’installazione che nasceva dal libro di Jean Baudrillard Il delitto perfetto, dove l’autore, per descrivere una certa relazione tra l’immagine e il fruitore, faceva riferimento al romanzo La Casa delle Belle Addormentate di Yasunari Kawabata. L’opera metteva in scena un bordello per persone anziane, dove i clienti si adagiavano accanto a delle vergini addormentate, in una dimensione lenta e rallentata, che mi interessava e mi interessa ancora molto.

Michelangelo Frammartino. Photo © Eniko Lorinczi

Michelangelo Frammartino. Photo © Eniko Lorinczi

FRAMMARTINO E LA CALABRIA

Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro di regista, visto che hai ambientato i tuoi film in Calabria, il tuo luogo d’origine?
Il mio rapporto con la Calabria è piuttosto semplice. Ciò che mi affascina di quella terra è la sua dimensione informe, che vive una contraddizione: sembra avere un carattere molto forte ma anche debolissimo. Mi spiego meglio. Nella città di Caulonia, da dove vengono i miei genitori, ogni vent’anni un’alluvione portava via tutto. Quindi ogni sforzo per mettere ordine era vano, e si viveva in un rapporto costante con l’informe e l’incontrollabile, per me molto importante. Questa dimensione del non finito per me è ancora oggi un’occasione di riflessione. Si tratta di una terra caratterizzata da una contraddizione tra il suo carattere millenario, legato alla Magna Grecia, e una provvisorietà estenuante; un’ospitalità commovente ma al tempo stesso di una severità sconfortante.

Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Con questa domanda porti in campo la memoria, che per me è un territorio aperto e vitale. Mi riferisco ancora alla Calabria, dove non sono nato ma andavo da piccolo. Allora giravo per i vicoli da solo e mi capitava di incontrare le donne anziane del paese, che guardavano la mia polo e le mie scarpette da ginnastica e capivano che non vivevo nel paese ma che ne facevo parte. Mi chiamavano e mi dicevano a quale famiglia appartenevo soltanto dai tratti del mio volto. Mi conoscevano senza conoscermi, grazie a una memoria autenticamente collettiva ma non più individuabile: di fatto si ricordavano di me senza avermi incontrato.

Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Io insegno e mi pongo sempre questa domanda. Consiglierei di guardare ma in maniera selettiva: oggi poter scaricare tutto da Internet è un grande impedimento. Prendersi il tempo di vedere le cose è diventato un lusso ma anche una necessità, che i diciottenni di oggi difficilmente possono prendersi. Ricordo che quando ero alla facoltà di architettura un professore molto sui generis come Corrado Levi ci diceva di soffermarci su progetti dei grandi architetti e ridisegnare le piante a mano, per possederle veramente.

Michelangelo Frammartino, Disegno di studio per Alberi

Michelangelo Frammartino, Disegno di studio per Alberi

IL SACRO E IL FUTURO SECONDO FRAMMARTINO

In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Posso dirti che negli ultimi anni le mie ricerche si sono spostate nella Calabria citeriore, una terra di grande ritualità, mentre sono originario della Calabria ulteriore, dove da ragazzo, venendo da una famiglia comunista, guardavo con sufficienza ogni manifestazione religiosa.  In alcuni centri della Calabria citeriore come Alessandria del Carretto o Terranova di Pollino, in cui ciò a cui si presta attenzione è profondamente immanente, c’è una dimensione del sacro restituito alla materia e alla vita, e questa dimensione ha smantellato la mia idea giovanile.
Gilles Deleuze diceva di ritrovare una fede nel mondo dove viviamo, con una capacità di credere a questo mondo che si tocca e si calpesta.

Qual è il messaggio che vuoi far arrivare con le tue opere?
Fin da ragazzo sono interessato a stabilire un rapporto forte e intenso tra chi guarda e la cosa guardata, che vuol dire riscoprire quella stoffa comune tra tu che sei il soggetto e quello che ritieni essere l’oggetto. Se ti accorgi che quello che hai davanti è fatto della tua stessa stoffa fai più attenzione al modo in cui lo avvicini, vuol dire che appartieni al mondo. Quando Kubrick trasforma duchampianamente l’osso della scimmia australe in protesi e la stacca dal paesaggio, è esattamente il momento in cui anche la scimmia si stacca dal paesaggio e comincia a camminare su due zampe. I miei lavori cercano di stimolare un’appartenenza unica, una comunanza tra l’uomo e il mondo, il recupero di una condivisione profonda tra noi e l’ambiente che ci circonda.

Come immagini il futuro?
Tutti ci stiamo interrogando su quello che ci sta accadendo e quanto l’abbiamo capito. Devo decidere se vaccinare mio figlio Lorenzo di dieci anni, e il futuro è in questa decisione.

Ludovico Pratesi

www.spaziotaverna.it

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Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

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