Damien Hirst e il bluff del teschio di diamanti: fu lui stesso a comprarlo
L’artista britannico ha detto al New York Times che l'opera For the Love of God, composta da oltre 8.600 diamanti, si trova ancora nei suoi depositi. Il record di vendita era fittizio.
Colpo di scena nel mercato artistico: Damien Hirst (Bristol, 1965), che nel 2007 aveva sostenuto di aver venduto il suo teschio tempestato di diamanti a degli investitori anonimi per la cifra record di circa 100 milioni di dollari, ha ufficialmente ammesso che la famosa compravendita non c’è mai stata. In un’intervista rilasciata al New York Times – realizzata in occasione della sua prima esposizione a New York da quattro anni – il bad boy inglese ha detto che l’opera For the Love of God, composta da più di 8.600 diamanti, si trova ancora in un deposito di Hatton Garden – il quartiere dei gioielli di Londra – e che questa è ancora di proprietà della sua galleria White Cube e di un gruppo di investitori.
LA NOTIZIA DELLA VENDITA DELL’OPERA FOR THE LOVE OF GOD E I PRIMI SOSPETTI
La vendita clamorosa, che White Cube aveva annunciato nell’agosto 2007, era stata garantita al tempo da fonti affidabili. Certo, un filo di dubbio rimaneva, dato che si parlava pur sempre di Hirst (basti vedere il finto naufragio di Treasures from the Wreck of the Unbelievable e scherzi affini) e che la galleria non aveva offerto alcuna prova concreta di vendita. Per non parlare delle incongruenze nel resoconto dell’artista: quando l’opera era stata preannunciata al pubblico nel 2006, Hirst aveva affermato di aver finanziato da sé tutti i 16 milioni di dollari per creare il teschio, ma quando finalmente lo ha mostrato alla White Cube ha detto che la cifra reale era 30 milioni di dollari. Praticamente il doppio, mentre diversi gioiellieri avevano valutato allora il prezzo effettivo del manufatto intorno ai 15/20 milioni. I primi sospetti erano poi emersi quando la White Cube aveva annunciato la vendita per 100 milioni, un super record (per di più in contanti). Nonostante i sospetti, l’opera era poi stata esposta al Rijksmuseum di Amsterdam, alla Tate Modern e a Palazzo Vecchio. Ora la candida ammissione dell’esponente degli Young British Artists – lanciatosi nel frattempo a testa bassa nel mercato degli NFT – conferma come sul settore, quello delle vendite e delle aste, la comunicazione conta più dei fatti. Spesso in barba alla trasparenza.
IL CASO NOSTRANO DEI PROFILI INSTAGRAM FAKE
Mentre artistar e gallerie di primo piano come Hirst e la White Cube turbano il mercato internazionale con notizie inconsistenti e del buon vecchio hype – ricavandone un cospicuo profitto, lo YBA è a tutti gli effetti l’artista più ricco della Gran Bretagna -, in Italia è bastato il caso di quattro profili Instagram fake di altrettanti collezionisti per far scoppiare un pandemonio. La facilità con cui artisti, gallerie e collezionisti si promuovono e ottengono investimenti senza dimostrazioni tangibili né garanzie (ancora più facilmente in pandemia) sottolinea una volta di più la fragilità del sistema dell’arte e la non singolarità di questi casi. Certo, alcuni più gravi di altri.
– Giulia Giaume
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