Luigi Mainolfi – Etna

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA DE' FOSCHERARI
Via Castiglione 2B, Bologna, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

da martedi a sabato

10:30-12:30 / 15:30-19.00

Vernissage
26/03/2022

ore 16

Artisti
Luigi Mainolfi
Generi
arte contemporanea, personale

La ricerca di Luigi Mainolfi, da oltre quattro decenni, traccia un percorso delineando una riflessione sui fondamenti e le complessità della pratica scultorea, sulle sue implicazioni profonde e la sua urgenza.

Comunicato stampa

Materia viva, mondi possibili

La ricerca di Luigi Mainolfi, da oltre quattro decenni, traccia un percorso delineando una riflessione sui fondamenti e le complessità della pratica scultorea, sulle sue implicazioni profonde e la sua urgenza. Urgenza che si manifesta senza il bisogno di rigidità disciplinari o posture austere: la scultura, per l’artista, non è tanto un territorio marcatamente delimitato da confini invalicabili, tecnici o concettuali che siano, quanto un campo aperto al possibile, alle molteplici direzioni concrete e simboliche che solo un rapporto quasi simbiontico con alcuni materiali, e forse con la materia in sé, può rivelare.

Una traiettoria, quella di Mainolfi, messa chiaramente in evidenza dalle opere presentate in questa personale alla Galleria De’ Foscherari, a partire da quella che dà il titolo alla mostra. Etna– polittico in terracotta realizzato lo scorso anno – è il tassello più recente di una ricerca sul tema del paesaggio che va avanti ormai da diversi anni, sempre in divenire e mai davvero conclusa. Riflettere sul paesaggio, per l’artista, ha poco a che vedere con questioni stilistiche o tematiche ed è cruciale, invece, per almeno altre due ragioni. La prima – e forse la più importante – consiste nell’intenzione di considerare la natura non come un mero oggetto del nostro sguardo o delle nostre azioni, ma come organismo vitale. La scultura per Mainolfi deve “vivere”, o meglio, deve portare alla luce la forza e le qualità intrinseche della materia da cui, tutto a un tratto, emerge con compiutezza l’opera. Opera che, ad un tempo, è sintesi e testimonianza di questo processo di vivificazione. Di conseguenza, il riferimento a un paesaggio specifico come quello dell’Etna diventa quasi un pretesto visivo: non rappresenta nulla se non l’intrecciarsi senza sosta di forze primordiali, incarnate simbolicamente sia dalla pratica artistica in sé, sia dal motivo iconico del fuoco e della terra vulcanica generatrice di vita.

Una seconda ragione di questo interesse dell’artista per i paesaggi è data dalla possibilità di realizzare sculture fortemente “pittoriche”. Etna è esempio molto efficace, con la sua struttura che rievoca chiaramente quella del quadro, anzitutto nella composizione di pattern – di quel rosso oramai cifra del lavoro dell’artista – disseminati sulla superficie anche in senso verticale. Non si tratta, però, di pensare la scultura come se fosse pittura o viceversa. L’intenzione alla radice del lavoro è molto più complessa e mira a un’ibridazione sostanziale di questi due mondi, tutta racchiusa in una formula paradossale, ma densa di senso, che Mainolfi è solito utilizzare in merito: «Forma della pittura, colore della scultura». Dunque, la materia plasmata, in sé pulsante, si traduce in immagine come superficie magmatica che ci invita a una visione ravvicinata. L’ingrandimento di un frammento di natura ci chiama a sé, proprio come il fotografo Thomas in Blow-Up Michelangelo Antonioni tende ad approssimarsi all’immagine aumentandone le dimensioni. Se però, all’interno di tale immagine, il protagonista del film cerca ciò che sfugge al reale, un dettaglio decisivo, lo sguardo ravvicinato a quelle di Mainolfi ci mostra invece un mondo in essere, il gioco combinatorio tra lavoro dell’artista e qualità vitali della materia.

In questo senso, l’importanza dell’utilizzo della terracotta per l’artista si conferma in altre due opere in mostra. Gli oggetti disposti in vetrina, di piccole dimensioni e forme tondeggianti e oblunghe, sembrano far parte di un singolare universo vegetale. Difficile, tuttavia, definirli meri oggetti: sulla superficie di alcuni l’artista ha lasciato segni di porticine e piccole finestre, a indicare la possibilità di ipotetici agglomerati viventi, di metaforiche città sorte dalla terracotta. La testimonianza di una vita sia concreta che simbolica della scultura è centrale nelle Sfere, serie portata avanti per diversi anni. Disposti come un «firmamento», direbbe l’artista, nello spazio espositivo, questi elementi ne disegnano una nuova topografia stabilendo, per lo spettatore, ulteriori relazioni con l’ambiente in cui è immerso. La sfera, inoltre, assume una sfumatura di senso molto importante per la ricerca di Mainolfi: quella di una figura ideale che rappresenti l’armonizzarsi del rapporto tra arte, natura e vita. L’immagine di una perfezione possibile e raggiungibile da ogni corpo vivente.

L’arte, allora, è via d’accesso per la creazione immaginativa di mondi e, così, anche di ipotetici abitanti. Come Apesse, figura dell’immenso bestiario ideato nel corso degli anni dall’artista: scultura in bronzo dalle forme a un tempo rigide e sinuose, ibrido vagamente elefantesco dall’incerta fisionomia. La si potrebbe definire una scultura figurativa, ma è sbagliato ridurla a una connotazione meramente descrittiva. Forse, pensando a Deleuze, vale la pena di utilizzare il termine “figurale” per indicare le forme vive di quest’immagine che sembra instabile, pur ben piantata a terra, e, potenzialmente, in grado di dare la sensazione di mutare e di convergere verso quella perfetta sfericità in cui, dice l’artista, tutto si trasforma.

Enrico Camprini