Futuro Antico. Intervista a Giulia Ammannati
La serie di contenuti dedicata al futuro e curata da Spazio Taverna cede la parola a una studiosa che trova nel passato una fonte di ispirazione preziosa
Giulia Ammannati (Firenze, 1971) si è formata alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ora insegna paleografia latina. I suoi interessi spaziano dall’antichità romana al Rinascimento e ama privilegiare un approccio interdisciplinare alla ricerca, coniugando lo studio della paleografia a quello della filologia classica e della storia dell’arte. Abbiamo sciolto con lei alcuni nodi della sua ricerca.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
L’arte classica senza dubbio, per formazione e antica passione, ma il Medioevo per scelta della maturità e amore fedele. Credo che del Medioevo continui ad attrarmi l’espressività potente ottenuta con mezzi limitati, e forse da soggetti umani che tendiamo a immaginare – noi figli del Rinascimento – provvisti di una sensibilità e un’interiorità ormai lontane nel tempo. Quasi parenti lontani, mai familiari fino in fondo. Non è assolutamente un giudizio critico: è una percezione che mi piace coltivare anarchicamente e arbitrariamente nella mia sfera privata, non professionale. È quell’idea che ognuno si fa di qualcosa e non vuole sottoposta a giudizi altrui, e sulla quale corre per ciascuno il senso del proprio soggettivo legame con quella cosa.
Qual è il testo che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Scegliere è difficile: è un po’ come scegliere fra uno dei propri figli. Uno di quelli cui sono più affezionata è La A di Giotto, in cui individuo la mano di Giotto in una serie di scritte presenti sulle sue opere. Ci sono particolarmente legata per un insieme di motivi diversi. Per il mio lungo amore verso Giotto, che è nato durante la mia adolescenza e che ha fatto per me di Giotto una figura familiare, affettiva, che con la dirompenza del suo genio riesce a coinvolgere la mia parte intellettuale come quella emotiva. Per quello che Giotto ha significato nel mio percorso accademico, perché a lui devo alcuni dei lavori più importanti che ho avuto la fortuna di fare. Per ‘lo stato di grazia’ che ho vissuto studiandolo, forse in virtù dell’ebrezza che deriva dall’essere consapevoli che si sta stabilendo un rapporto privilegiato con uno dei vertici sommi della storia umana. È stata una ricerca nata da un’intuizione quasi incredula, che poi si è trasformata in una verifica oggettiva e scientifica, condotta con distacco professionale, e infine è tornata a essere una gioia e un godimento miei personali, per il risultato, sì, ma ancor più per la ‘complicità’ che ho sentito e sento con lui. Perché la scrittura, nonostante che di Giotto importi mille volte di più quello che sapeva fare con un pennello in mano, siamo istintivamente portati a percepirla come la manifestazione più diretta del sé, un po’ come sono gli occhi per l’anima.
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Una grande importanza, mi rendo conto sempre più. Sono fiorentina, e temo che questo conti parecchio! Parto da un ricordo nitido che conservo di un momento della mia adolescenza. Ricordo perfettamente un giorno, una sorta di attimo condensato nel tempo, in cui, contemplando una veduta un po’ in lontananza della mia città, mi accorsi della bellezza perfetta della cupola del Brunelleschi e della sua straordinaria armonia paesaggistica. Armonia di forma e di colori: questo stupefacente colpo di genio, che da dove mi trovavo non appariva né troppo grande né troppo piccola, ma sembrava un parto naturale dell’ambiente e dell’orizzonte, mi apparve leggerissima, i suoi spicchi quasi vele appena tese al vento; e quel rosso, che nelle giornate di sole sembra concedersi all’osservatore con la maestosa compostezza di un dio, che governa il verde cupo delle colline e il celeste e il bianco del cielo!
Che cosa significò per te?
Fu per me come vederla per la prima volta: qualcosa cui ero abituata da sempre, ma di cui mi impadronii davvero solo allora. Un vero riconoscimento. E un altro fu quando i cipressi delle colline di Firenze mi parvero disegnare il paesaggio in modo stupendamente ‘intelligente’, come avviene solo in Toscana. Ecco, penso che queste profonde sensazioni che vivo della mia città e della mia terra mi abbiano orientato in quello che cerco anche nel mio lavoro. Sento un’appartenenza con cui voglio entrare in contatto, con cui voglio un rapporto. E così quello che faccio si trasforma in qualcosa che mi riguarda personalmente e profondamente, e per cui mi nascono le motivazioni e le energie più feconde. Forse non è un caso che sia riuscita a dare il meglio quando mi sono incontrata con i grandissimi della mia terra: Giotto, i creatori del Duomo e della Torre di Pisa, Dante. Sento quasi di dover pagare loro un debito di riconoscenza per la parte che hanno avuto nel mio sviluppo di persona. E con loro è come se sentissi un rapporto personale: quando andai a Vespigano, un minuscolo paesino in Mugello dove è nato Giotto (e la mia bisnonna!), la cosa che più mi colpì fu pensare che la corona d’Appennino che vedevo tutt’attorno era ancora esattamente quella che Giotto aveva imparato a conoscere da piccolo e aveva amato per tutta la vita. I paesaggi umani cambiano, i monti no. Un pensiero, anzi una reazione del tutto intima e del tutto mia con lui.
PASSATO E FUTURO SECONDO GIULIA AMMANNATI
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Assolutamente sì. Deve averlo. Noi oggi siamo traviati dall’idea che il passato sia un qualcosa di più arretrato e primitivo del presente: niente di più fasullo. Io, per esempio, amo molto il latino e il mondo classico: una civiltà, una letteratura, un’arte sopraffine, che mettono stupore e imbarazzo per la bellezza che contengono, se si ha la voglia di conoscerle, non solo di avvertirle distrattamente attorno a noi. Ha ragione il mio amato maestro Gian Biagio Conte a lamentarsi che siamo sazi della retorica delle radici: “L’antico è vivo. La natura delle radici è di essere sì vitali ma anche nascoste, invisibili. L’antico invece è visibile, vive con noi in ogni momento, è tutt’intorno a noi, non sta nascosto“. Ricordo che volli tentare il concorso di ammissione alla Scuola Normale di Pisa folgorata proprio da un suo libro di letteratura latina: Memoria dei poeti e sistema letterario. Quando lo lessi diciottenne, ci capii molto poco (me ne rendo conto adesso!); però intuii una cosa importante: che c’era moltissimo da capire. E quella fu una vera svolta nella mia giovane vita. Il passato non è un’entità lontana ed estranea; e poter contare sul passato, anzi, è una grande occasione di forza: personalmente non mi vergogno ad ammettere che durante la mia adolescenza, e i tormenti più o meno grandi che l’adolescenza fa vivere a tutti noi, ho cercato le mie risposte dentro quel mondo. E le ho trovate e mi accompagnano ancora.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Uno solo: quello di metterci impegno. Impegno è anzitutto divertimento: significa godersi le proprie giornate calati e immersi, sguazzanti direi, in quello che si ama. E poi l’impegno è l’amico più fedele: sostiene, pacifica con se stessi e con gli altri, e non si spazientisce quando il risultato non è immediato. L’impegno ci fa gustare ogni cosa che facciamo e ogni momento del nostro tempo.
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Indipendentemente dal credo di ciascuno, penso che il senso del sacro sia fondamentale come attitudine mentale e condizione psicologica: è una delle corde insopprimibili dell’essere umano e del suo rapporto col mondo e con l’altro da sé. È la cifra che ammonisce al rispetto profondo: un rispetto non cieco, instupidito o intimorito, ma vibrante e stupefatto.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Posso dire come immagino il futuro nella ricerca, che è la realtà che vivo e conosco più da vicino. Lo immagino – soprattutto lo spero – stimolato e guidato dalla passione per la ricerca stessa, in ogni campo e direzione. Ricerca intesa come esplorazione, come inseguimento della conoscenza, come voglia di comprensione di qualunque fenomeno della realtà. In risposta ai bisogni e alle necessità che emergono nella società, di ogni genere e anche gravità (un esempio clamoroso lo abbiamo visto in questi anni nella straordinaria risposta che la scienza è riuscita a dare alla pandemia, trovando il vaccino a tempo di record); ma anche in risposta alle esigenze più gratuite inscritte nell’essere umano, che è portato per natura alla curiosità fine a se stessa, alla contemplazione del bello, all’appagamento che si prova nel compiere il viaggio prima dell’interrogarsi, poi del cercare e infine del trovare. E sottolineerei il momento centrale dei tre, quello del cercare, perché è la dimensione più bella in cui trovarsi: fra lo stimolo inziale della domanda e la soddisfazione finale della risposta, che però è già incalzata da un’altra domanda ancora. Nella mia personale esperienza, la passione con cui continuo a cercare è il modo più elettrizzante che conosco per vivere le mie giornate.
‒ Ludovico Pratesi
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