Sogni, desideri, ambizioni, sentimenti, tutto ciò che attiene alla sfera spirituale ha origine in un luogo: il nostro corpo. Lo possiamo amare oppure odiare, osannare o sminuire, ma non ci è dato ignorarlo, con esso dobbiamo sempre fare i conti e molte volte anche scendere a patti.
Hortus conclusus della nostra anima, il corpo è insieme attore e spettatore, contenente e contenuto, ma pur sempre protagonista dell’incessante ricerca che l’Io compie intorno al Sé (e all’altro da Sé).
Centinaia sono gli artisti che appaiono nei tre volumi de Il corpo solitario, una raccolta che per vastità e profondità di analisi può essere definita “Enciclopedia critica dell’Autoritratto”. L’autore, Giorgio Bonomi (Roma, 1946) ‒ noto storico, critico d’arte e curatore, nonché fondatore della rivista Titolo e a lungo direttore della Biennale di Scultura di Gubbio ‒, da oltre un decennio dedica la sua attività critica a raccogliere i lavori di fotografi, italiani e stranieri che, a partire dagli Anni Settanta del secolo scorso, praticano l’arte dell’autoritratto.
Un’opera davvero ambiziosa e accurata; ciascun volume è diviso in capitoli, nei quali l’autore, per comodità di lettura e non certo con l’intenzione di porre dei limiti espressivi, colloca gli artisti. Si spazia dal corpo come identità al corpo travestito, messo a nudo, nascosto, assente, sperimentale, narrato, al corpo nella natura, nei luoghi abbandonati, al corpo ritrovato, politico, in attesa. A ogni artista, oltre alla nota biografica e un corredo iconografico adeguato, è dedicato un commento storico-critico, solitamente descrittivo, talvolta lusinghiero, talaltra severo e anche, all’occorrenza, pesantemente critico, tuttavia, sempre rigoroso e onesto. Attraverso la lettura e la visione de Il corpo solitario è possibile ripercorrere l’intera storia della fotografia degli ultimi cinquant’anni, sia rispetto ai temi trattati e alle correnti artistiche proposte, sia per le tecniche fotografiche utilizzate: dalla tradizionale pellicola alla macchina digitale, dalla Polaroid all’uso di Photoshop e di antiche tecniche di ritocco. C’è persino l’anaglifo, lo sviluppo al collodio umido e una insolita “stampa su ghiaccio”.
INTERVISTA A GIORGIO BONOMI
Che cosa ti ha spinto a cimentarti in questa impresa?
Il mio studio sull’autoritratto fotografico inizia circa venti anni fa ed è dovuto a due fattori: l’uno nasce dal mio interesse per la Body Art, fenomeno iniziato da quel grandissimo innovatore che è Marcel Duchamp e poi sviluppato, negli Anni Sessanta e Settanta, soprattutto dalle artiste; l’altro è maggiormente legato alla contingenza, cioè avevo curato, a Verona e a Steyr in Austria, una mostra dal titolo Il corpo assente, in cui le opere rappresentavano qualcosa che rimandava al corpo che non c’era più o non ancora, come vestiti o sedie vuoti; e successivamente, nel 2004 a Pinerolo, una mostra intitolata proprio Il corpo solitario, da cui è iniziata la ricerca, condotta con scrupolo scientifico.
Quali sono stati i criteri di scelta, la metodologia adottata e le finalità alla base del progetto?
Non sono uno studioso di fotografia, il mio lavoro critico si è incentrato sulla scultura e sulla pittura di tipo astratto-concettuale e analitico-minimalista, ma ho iniziato a raccogliere materiale da tutto il mondo, volendo compilare, come dici tu, una sorta di enciclopedia dell’autoscatto, quindi non escludendo nessun artista. Naturalmente gli artisti presenti sono di livelli anche molto differenti, famosi e non, bravi e non, ma comunque tutti “artisti” che, per un periodo o quasi sempre, hanno lavorato con l’autoscatto. So bene che è difficile stabilire chi è artista e chi non lo è: per me lo sono coloro che sono riconosciuti come tali e che praticano l’arte secondo i criteri della disciplina (fare mostre, avere testi critici ecc.).
Devo dire che quando ho cominciato c’era pochissima bibliografia sul tema ‒ anche ora, in verità, abbiamo numerosissimi articoli in periodici ma pochi testi, i quali per lo più non sono storico-scientifici, ma “d’occasione” e quindi superficiali ‒ e che gli artisti “autoscattisti” erano sì numerosi, ma è solo dagli Anni Dieci di questo secolo che il fenomeno “autoscatto”, come avevo intuito, si è sviluppato a dismisura.
Questo terzo volume, che voleva essere conclusivo, rischia di avere un seguito, dato che ho già più di duecento nomi che non ho trattato nei testi precedenti.
LA FOTOGRAFIA SECONDO BONOMI
Dal selfie hai voluto chiaramente prendere le distanze, ma non credi che forse anche il selfie, in prospettiva, potrà avere una qualche possibilità di riscatto?
Sono profondamente democratico e credo che ognuno, senza che danneggi un altro, possa fare tutto, ma con la consapevolezza delle differenze e dei meriti. Il selfie è essenzialmente una pratica di ricordo (come le foto di compleanno) o di comunicazione (si posta un selfie fatto davanti alla Gioconda, di cui spesso non si sa nulla, solo per far sapere agli amici che si è stati al Louvre) o di vanità: come tale è assai difficile che abbia i connotati di “opera d’arte”; ovviamente un selfie fatto da un grande, o almeno bravo, fotografo potrà avere caratteristiche estetiche assai elevate. È un po’ come per le fotografie pubblicitarie: possono essere belle ma puramente “artigianali” oppure, come nel caso del compianto Giovanni Gastel, dei capolavori.
Così non credo che possa esserci “riscatto”, come non potremo trovare poesia o letteratura su Facebook o su Twitter a meno che non siano un poeta o un romanziere a postare una loro opera.
Sostieni che storicamente la donna, in misura molto maggiore rispetto all’uomo, ha dovuto lottare per affermare la propria identità. Quale impatto ha avuto questo fenomeno sullo sviluppo estetico dell’autoritratto fotografico?
Nella storia dell’arte gli artisti hanno spesso eseguito autoritratti, ma si trattava, salvo rari casi, del loro viso, del loro busto. Occorrerà attendere la Body Art per vedere l’artista presentarsi con tutto il suo corpo, molte volte nudo e quasi sempre da parte di artiste. Questo perché l’artista donna che doveva “recuperare” la propria identità (di genere, sociale, artistica ecc.) si “spogliava” di ogni connotazione identitaria altra (ad esempio i vestiti) e si dava solo con se stessa. Soprattutto con l’azione (la performance) e con l’autoscatto si ritrovavano l’identità e la propria soggettività, infatti qui il “soggetto” è allo stesso tempo “oggetto”, un oggetto che, per molti aspetti, è imprevedibile perché nell’autoscatto ‒ realizzato con i timer, la pompetta, il telecomando, finanche con un “servente” che schiaccia il pulsante ‒ c’è sempre un margine di imprevedibilità nel risultato.
Certo, con l’autoritratto l’artista opera su di sé, ma un sé che viene “oggettivato”, quindi che diviene “altro da sé” e viene conosciuto “compreso”. Questo verbo, “comprendere”, per me riveste una grande importanza.
Spiegaci meglio.
In origine, in latino, significava “prendere insieme”, “abbracciare”, e questo mi porta a dare un’interpretazione del mito di Narciso diversa da quelle tradizionali e assai pertinente in relazione alla tematica che stiamo trattando. Secondo le interpretazioni più diffuse, Narciso vede la sua figura rispecchiata nel lago e si innamora di sé per cui vuole “abbracciarsi”, “com-prendersi” e perciò muore (un’altra versione lo vede morire di inedia restando fermo e immobile nella contemplazione di sé). Per me, invece, Narciso vuole “comprendersi” nel senso che vuole “conoscersi”, per cui “abbraccia” la sua immagine: si tratta allora del mito della “conoscenza di sé”, che può avvenire solo con lo specchio o con l’autoritratto.
BONOMI E GLI ARTISTI
Ci regali qualche aneddoto relativo al tuo rapporto con gli autori degli scatti nell’arco degli anni?
Mi piace sottolineare due situazioni in cui mi sono trovato. La prima è quella in cui gli artisti giovani e/o sconosciuti e/o mediocri (esaminati per dovere di correttezza e completezza scientifica) mi chiedevano un compenso finanziario per pubblicare le loro foto, sebbene avessi loro spiegato l’impossibilità della cosa dato l’alto numero di artisti presenti in ciascun libro, per cui ho parlato di questi ma senza fotografie. Al contrario, ho trovato una disponibilità assoluta in artisti internazionali quali Jane Freud, figlia del grande pittore Lucian e pronipote del padre della psicanalisi Sigmund, o in Matuschka, artista, modella, fotografa, che ha avuto una famosa copertina del New York Times- Sunday Magazine, dove appare nuda dopo una mastectomia.
E poi?
Un’altra situazione curiosa è quella che mi ha condotto a subire una sorta di contrappasso. Per la copertina del primo volume volevo l’immagine di un’artista internazionale e la scelta è caduta su una YBA (Young British Artists), Jemima Stehli, che aveva realizzato una divertente serie di fotografie, Strip, nella quale dei critici erano seduti con la pompetta per lo scatto in mano, l’artista era in piedi di fronte a loro e dietro di essa c’era la macchina fotografica: Stehli piano piano si spogliava e il critico, ora con espressione divertita ora imbarazzata, scattava, fino a riprendere l’artista nuda. Ecco, volevo ripetere questa performance da protagonista e pubblicare la copertina con un’immagine di nudo (posteriore) di donna, rendendola così “maschilisticamente” oggetto. Ma a Londra, nel suo studio, Stehli disse che non si spogliava più, per cui l’immagine è risultata con lei che appare in minima parte e vestita mentre io sono in bella vista che prendo quasi tutta la scena, diventando a mia volta “oggetto”, visivo e di ironia da parte di molti lettori che stigmatizzano un mio presunto narcisismo.
‒ Adriana Scalise
Giorgio Bonomi – Il corpo solitario (vol. III)
Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2021
Pagg. 368, € 40
ISBN 9788849871296
https://www.store.rubbettinoeditore.it/
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