Il libro che raccoglie le architetture dimenticate (in edizione limitata)
In vendita esclusivamente fino al 7 giugno 2022 (e poi mai più), “Forgotten Architecture. Un archivio di progetto compiuti e scomparsi” è l’opera prima della ricercatrice e autrice di architettura Bianca Felicori. Un lavoro corale, che prende avvio dall'esperienza dell’omonimo gruppo Facebook attivo dal 2019
Ragionare con l’autrice di un libro in assenza dello stesso non è un’esperienza così ricorrente. Più frequenti, infatti, sono le opportunità di confronto e scambio generate dalla lettura e dalla successiva analisi di un determinato volume. Tuttavia, nel caso specifico di Forgotten Architecture. Un archivio di progetto compiuti e scomparsi – prodotto da NERO e Prima O Mai, sarà acquistabile fino al prossimo giugno (e poi mai più) e verrà consegnato a domicilio entro il 30 luglio –, questa condizione appare quasi marginale. Certo, il desiderio di sfogliare le pagine dell’opera che promette di sottrarre dall’oblio i progetti di architetti poco noti e considerati “minori”, così come di illustrare i lavori rimasti nell’ombra dei maestri, è tangibile in chi scrive. Ma in attesa che questo avvenga, l’incontro con Bianca Felicori – ricercatrice e autrice di architettura cui si deve l’ideazione della vivace community Forgotten Architecture prima, e la curatela del volume poi – offre l’occasione per una riflessione focalizzata sul processo prima ancora che sul “risultato finale”. Oltre ai contributi specialistici di autori e giornalisti di architettura e, in qualità di fotografi, di Fabrizio Vatieri, Nicola Nunziata, Giovanna Silva, Luca Caizzi, Federico Torra, Roberto Conte, Stefano Perego e della stessa Felicori, il libro Forgotten Architecture include i saggi critici di Franco Raggi, Nina Bassoli, Azzurra Muzzonigro, Nicolò Ornaghi e Cino Zucchi.
INTERVISTA A BIANCA FELICORI
Nel 2019, raccontando ad Artribune la nascita e la rapida ascesa del gruppo Facebook Forgotten Architecture, evidenziavi già la sua natura di “mega-collettivo”. Un’impostazione che oggi si riflette, con ovvio ridimensionamento, nel libro. Più che sul coinvolgimento di una serie di autori ed esperti, vorrei ragionare sullo sforzo per presentare, con immagini e disegni, i progetti scelti. Come hai superato le difficoltà di reperimento di materiali che già normalmente si incontrano in questo tipo di ricerche?
Questa è stata indubbiamente l’operazione più complessa che ho fatto fino a oggi: ho imparato a muovermi tra nuovi temi e ostacoli come la ricerca in archivio, i diritti d’autore; in generale ho imparato a muovermi nel mondo dell’editoria. Sono partita da una selezione base di progetti per ogni capitolo, ciascuno dedicato a un macro-tema architettonico. A quel punto ho iniziato un minuzioso e paziente lavoro di ricerca delle immagini contattando archivi, studi e le famiglie stesse degli architetti scomparsi. È stato davvero faticoso, ma allo stesso tempo un momento di estrema soddisfazione e soprattutto molto emotivo, perché spesso entri in contatto o con i progettisti stessi o con chi ne detiene i diritti d’autore, persone che si sono quasi sempre rivelate disponibili e felici di partecipare al progetto.
Alla luce di queste esperienze, come definiresti lo scenario degli archivi di architettura, soprattutto in Italia?
Salvo alcuni casi, in generale ho avuto a che fare con realtà ben organizzate. Il materiale raccolto nel libro è, come si deduce facilmente anche solo dal titolo Forgotten Architecture, documentazione raramente pubblicata o addirittura mai pubblicata; quindi il recupero delle immagini è stato alle volte difficile. In generale ho trovato archivi e realtà ben organizzate; credo, però, che il cliché dell’archivio visto come luogo destinato soltanto ai ricercatori o a chi opera nel settore sia ancora troppo forte in Italia. Forgotten Architecture serve anche a questo, ad annullare i confini tra il formale e l’informale, facendo scoprire a un pubblico più ampio cosa si nasconde dietro a un’importante operazione di ricerca e recupero materiali.
Perché hai scelto di oltrepassare la dimensione del gruppo puntando su un libro, anziché optare, in prima battuta, su un altro strumento digitale – penso a un’app –, che avrebbe consentito un aggiornamento costante? E, forse, avrebbe assecondato la richiesta di immaginare nuovi itinerari a tema architettonico (almeno con le architetture dimenticate che esistono ancora).
Credo che un archivio digitale come Forgotten Architecture, aperto a tutti, possa diventare tante cose. Già il gruppo di per sé è un tool che utilizzo anche io durante i viaggi. Con lo strumento “cerca”, simboleggiato dalla lente d’ingrandimento, puoi andare a ritrovare le architetture segnalate su Facebook per costruire i tuoi personali itinerari. Già questo è un grande vantaggio. Pubblicare un libro, per di più prodotto in edizione limitata, permette a tutti di portarsi a casa un’esperienza virtuale tradotta in un oggetto fisico. Il libro di Forgotten Architecture è una sorta di piccolo tesoro, un feticcio da conservare per sempre. Il progetto negli anni ha assunto tante forme, ma diventare un libro, da buona ricercatrice quale sono, era il mio obbiettivo principale, perché credo ancora nella carta come potente mezzo di restituzione.
ARCHITETTURE DIMENTICATE E RISCOPERTE NEL LIBRO DI FELICORI
Dopo un triennio di raccolta, scambio e confronto all’interno del gruppo e fuori, anche attorno al concetto di “dimenticato”, continui a ritenere che la condizione di “forgotten” sia in massima parte una responsabilità della storia dell’architettura, del suo insegnamento universitario e del lavoro condotto dalla critica di settore?
Sì, lo credo. È evidente come, più in generale, i tagli e le decisioni prese dai critici e dagli storici su cui gli studenti di ogni scuola studiano segnano profondamente la formazione di ognuno di loro. A ciò va aggiunto il fatto che in ogni città, in Italia, il programma di insegnamento cambia; se estendiamo il ragionamento su scala statale e continentale, la situazione si fa ancora più critica. Non è una condanna bensì una constatazione, ma credo sia giusto fare in modo che si vada oltre i limiti accademici. Se il discorso invece si amplia a un pubblico non di settore, sono ancora convinta del fatto che l’architettura, e più in generale coloro che insegnano e raccontano l’architettura, siano sempre un po’ troppo impegnati a parlarne a un pubblico specializzato, escludendo ascoltatori provenienti da altre discipline che non potranno mai interessarsi alla nostra. Credo che Forgotten Architecture ci abbia insegnato come un dialogo informale e orizzontale sull’architettura sia possibile, e non tramite una ricerca per immagini su Pinterest.
Sono emersi casi “controcorrente”, in cui gli stessi progettisti, i committenti delle opere o fortuite circostanze hanno contribuito, in vario modo, a porre le basi per un destino di oblio nonostante un interesse degli addetti del settore?
Un caso “controcorrente” che mi sento di citare è quello di Günther Domenig. L’intera opera di Günther Domenig è caratterizzata da una prepotente rottura con i canoni tradizionali dell’architettura moderna verso una nuova interpretazione della disciplina legata non solo allo studio di un nuovo stile, spesso definito “manierismo organico”, ma anche a un viaggio introspettivo e psicologico nella personalità e nella sfera privata dell’architetto stesso. È chiaro come questo viaggio introspettivo nella dimensione personale dell’architetto, da cui scaturiscono forme organiche e oniriche senza precedenti, possa avere fatto in modo che la sua opera rimanesse in ombra rispetto a molti architetti attivi negli Anni Settanta in Europa.
Architetture dimenticate e geografia. La condizione di perifericità rispetto ai principali nuclei urbani incide sulla condizione di “architettura dimenticata” o, come spesso accade, lo scenario emerso è sorprendentemente più complicato e coinvolge città e piccoli centri in maniera indistinta?
È davvero complesso definire quali sono i fattori che incidono sulla “dimenticanza” di un progetto o meno, ma indubbiamente la posizione geografica può influire sulla notorietà di un’opera. Al contrario può accadere che alcune opere diventino celebri proprio per la loro marginalità nella città, ma è una fama che di solito viene riconosciuta a queste opere per via delle critiche mosse nel tempo. Pensiamo per esempio a tutti quei progetti di micro-città popolari, poi diventate delle “oasi” di ghettizzazione delle classi meno abbienti, come molti complessi progettati nel secondo Novecento.
RADICI E PROSPETTIVE DEL PROGETTO FORGOTTEN ARCHITECTURE
La scultorea e acefala “Madre Natura”, collocata da Tomaso Buzzi a La Scarzuola, in Umbria, è la copertina del libro (e del gruppo). Cosa ti lega a quell’immagine e a quel progetto?
Una storia molto personale, o comunque legata ai miei inizi nel mondo dell’architettura. Nel 2016 mi stavo laureando al corso triennale al Politecnico, e stavo finendo il tirocinio da Domus. La mia tesi era dedicata all’uscita del numero 1000 della rivista, un numero in cui erano stati coinvolti tutti i direttori della rivista stessa; tra loro, Alessandro Mendini, direttore dal 1979 al 1985 e poi di nuovo dal 2010 al 2011. In questo numero Mendini, poi diventata una delle figure chiave nel mio percorso accademico e professionale, pubblica una serie di immagini tra cui La Scarzuola, mai vista prima di quel momento. Sono andata a visitarla due anni dopo, rendendomi conto di quanto quella necessità di integrare la mia formazione universitaria con ricerche parallele fosse un bisogno impellente che dovevo risolvere al più presto. Ecco perché oggi si trova sulla copertina del mio primo libro.
“Non ci resta che vedere cosa il futuro riserva per questo progetto”. Così concludevi il tuo articolo, tre anni fa. Forgotten Architecture continuerà ad assumere altre forme, divenendo ad esempio un progetto espositivo, o i tempi sono maturi per intraprendere un nuovo filone di ricerca?
Forgotten Architecture è vivo perché non è un semplice progetto di architettura, bensì una community. È già diventato e stato tante cose: oggi un libro, ieri un tour, l’altro ieri un programma in Triennale, un workshop e così via. Presto diventerà un documentario, a cui sto lavorando ora con la regista Lisa Bosi, che dopo il libro ritengo sia uno degli obiettivi più belli da raggiungere per progetti come questi. In generale nella sua evoluzione si lascia indietro il passato e si riscopre in nuove forme: staremo a vedere quali saranno. Questi tre anni sono stati intensi ma non sufficienti per esaurire le energie.
‒ Valentina Silvestrini
Bianca Felicori (a cura di) – Forgotten Architecture
Nero, Roma 2022
Pagg. 280, € 40
https://www.neroeditions.com/product/forgotten-architecture/
www.primaomai.com
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