Letizia Battaglia fra lucidità e provocazione. Il ricordo di Denis Curti
Il direttore artistico della Casa dei Tre Oci di Venezia ripercorre il suo legame professionale con Letizia Battaglia, la fotografa recentemente scomparsa
Ho avuto la fortuna di conoscere e di lavorare con Letizia Battaglia (Palermo, 1935-2022) e non è stato sempre facile e non poteva essere altrimenti. Letizia aveva un carattere forte e le idee chiare. La sua lucidità mi ha sempre affascinato. Le sue provocazioni mi intimorivano. Alla fine vinceva sempre lei ed era giusto così. Noi “curators” siamo solo dei traduttori. Come architetti e scenografi, mettiamo in scena un copione scritto da altri/e. Oggi la voglio ricordare così: sognante, sorridente e leggera, mentre danza sulle sue fotografie. Quelle forti, che ripudiano la mafia ma anche quelle dolcissime dedicate ai bambini e bambine. Una danza piena di armonia e verità. Continuerò a chiamarti forte, Letizia, per tenerti con me più che posso.
LE PAROLE DI DENIS CURTI
In occasione della mostra L’Italia dei fotografi, organizzata al Museo M9 di Mestre nel 2019, scrissi queste righe che volentieri ripropongo.
Rosa si avvicina alla finestra ed è colpita dalla luce del sole che entra nella stanza e le illumina una parte del volto, mentre l’altra metà rimane in ombra, protetta dalle persiane. Letizia chiede a Rosa di chiudere gli occhi e scatta una delle sue ultime fotografie di mafia. È il 1993 e l’anno prima Vito Schifani, agente della scorta di Giovanni Falcone, muore nella strage di Capaci, lasciando la moglie Rosa, allora poco più che ventenne, e un figlio appena nato. Tra il 1978 e il 1992 i sicari di Cosa nostra hanno eliminato qualsiasi pubblico ufficiale che interferisse con i loro affari, perpetrando una serie di omicidi che hanno colpito politici come Piersanti Mattarella, allora Presidente della Regione Sicilia, uomini delle forze dell’ordine come il generale comandante dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, i procuratori generali, Gaetano Costa, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, e i due magistrati antimafia più importanti di allora: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questi fatti si susseguono uno dopo l’altro in un’escalation di violenza che sfocia negli Anni Novanta con lo stragismo di stato, in un’Italia che, come diceva Leonardo Sciascia, si era sicilianizzata. A tutto questo si aggiungono poi i feroci assassinii eseguiti come regolamento di conti all’interno della stessa organizzazione mafiosa, un periodo di violente lotte intestine che culmina nel 1982, anno in cui si conta il maggior numero di morti ammazzati. La foto della vedova Schifani che chiude gli occhi diventa un’immagine simbolo, perché va a chiudere un periodo lunghissimo di morti violente e dolore insensato, iniziato già negli Anni Sessanta.
LETIZIA BATTAGLIA E LA FOTOGRAFIA
Letizia Battaglia inizia a fotografare nel 1974 e copre per quasi vent’anni la cronaca di Palermo, che significa sì raccontare gli eventi quotidiani, lo sport o i concorsi di bellezza, ma significa soprattutto raccontare la cronaca nera, che a Palermo è sinonimo di mafia. Fotografare giorno dopo giorno questi fatti vuol dire diventare testimoni della graduale crescita del potere mafioso che dal traffico di droga si espande al mercato edilizio, per arrivare a capillari infiltrazioni nella politica. Letizia Battaglia collabora per lungo tempo come giornalista corrispondente e poi come fotografa professionista con il quotidiano L’Ora, uno dei primi giornali in Italia a denunciare, tramite le sue inchieste, la presenza malavitosa in Sicilia. È una redazione combattiva e tenace, che non si lascia intimidire dalle minacce neanche quando nel 1958 la sede del giornale viene fatta esplodere con cinque chili di tritolo. Battaglia, poco dopo essere entrata al giornale, riesce a organizzare un piccolo gruppo di fotoreporter che riescono a coprire tutta la città. “Sul luogo di un omicidio” – scrive Franco Zecchin, compagno di Battaglia e appartenente al gruppo di fotografi dell’Ora – “bisognava fotografare ciò che volevano i giornali: la scena del delitto, i poliziotti, i magistrati, i parenti, la disperazione, gli svenimenti delle donne, la rabbia degli uomini. […] In una frazione di secondo dovevamo avere la luce giusta, la composizione efficace, l’immagine a fuoco” (F. Zecchin, Fotografare contro, in G. Calvenzi, Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Milano 2010, pp. 30-31).
La velocità è tutto, è un lavoro dal ritmo frenetico, non esistono pause né giorni festivi, si lavora spinti da una tensione etica, dal bisogno di raccontare, a fronte di una paga esigua e di uno scarso riconoscimento da parte dei colleghi giornalisti. Battaglia scatta in modo istintivo, non ha tempo per comporre l’immagine, le sue sono fotografie non mediate e nascono da una necessità impellente di mostrare, per tentare in un secondo momento di capire. Il ruolo politico delle sue immagini emerge una volta stampati i provini, quando viene scelta un’immagine piuttosto che un’altra perché quella veicola un preciso significato, un determinato messaggio.
LE FOTOGRAFIE “POLITICHE” DI LETIZIA BATTAGLIA
Battaglia fa parte di una generazione di fotoreporter autodidatti che si formano durante gli anni caldi delle manifestazioni studentesche, operaie o femministe, che si interrogano a fondo sul senso del loro mestiere e che credono fermamente nel potere politico della fotografia e nella sua capacità di agire e cambiare il mondo. Per questo quando ha ricevuto, prima donna europea, il premio Eugene Smith Grant ha dichiarato: “Ho pensato che premiassero il mio essere sulle barricate, la mia combattività. Neppure per un attimo ho pensato che premiassero la qualità delle fotografie” (G. Calvenzi, Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Milano 2010, p. 30). Palermo la fagocita, è una città che per lei è un’ossessione che ritorna, una malattia di cui non riesce a liberarsi perché vivono ormai in simbiosi. E tuttavia, nonostante i fatti violenti e insensati cui ha assistito e che per un periodo l’hanno allontanata dalla fotografia, Battaglia ancora oggi non si arrende e cerca nelle sue immagini lo sguardo delle donne e quello proiettato verso il futuro delle bambine.
‒ Denis Curti
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