Moda e sostenibilità: è il momento di fare sul serio
Da tempo la moda parla di sostenibilità, ma non sempre la mette in pratica in maniera concreta. Finalmente la Commissione europea ha stilato un documento che individua e promuove azioni concrete per rendere l’intero ciclo produttivo della moda e i suoi effetti davvero “green”
È arrivato il momento di estendere e precisare il concetto di “sostenibilità”. Da troppo tempo subiamo la comunicazione errata di scarpe, magliette, jeans e felpe sostenibili. E con la comparsa, alla Stazione Centrale di Milano, delle “vetrine sostenibili” e delle “pubblicità sostenibili”, forse si è andati un po’ oltre. Ma poi, cosa vuol dire “pubblicità sostenibile”? Forse che la produzione ha parzialmente utilizzato fonti di energia rinnovabile?
Il problema sta proprio qui: al giorno d’oggi la promessa di sostenibilità, nella maggior parte dei casi, si esaurisce sempre in tecnologie, materiali o processi capaci di ridurre certe dimensioni dell’impatto ambientale di un prodotto in una o più fasi del suo sviluppo. Ma la verità è che questo non vuol dire “sostenibile”. Perché quegli stessi materiali potrebbero avere correlate conseguenze negative di altra natura. Potrebbero, per esempio, risultare nocivi per la nostra pelle e salute, impossibili da smaltire o riciclare ed essere frutto di lavoro sottopagato. Potremmo mai definire “sostenibile” un materiale che riduce le emissioni di CO2 in fase di produzione ma che è tossico per la pelle delle persone? Il concetto va quindi esteso per abbracciare aspetti sociali, culturali e ambientali con una visione sistemica che è lontana dalla percezione che si ha oggi del prodotto “sostenibile”.
“Sostenibile” è qualsivoglia azione che, compiutasi nel presente, non preclude in alcun modo lo svolgimento della medesima nel futuro. Sul mercato quindi non esistono oggi prodotti 100% sostenibili, ma ci sono prodotti a limitata responsabilità ambientale e/o a massimale responsabilità sociale. Il raggiungimento della destinazione “sostenibilità” rimane, per ora, una sfida più grande di un singolo brand. È un’utopia necessaria che ci deve spronare a continuare lavorare e innovare per avvicinarci sempre di più alla meta.
COSA DEVE FARE LA MODA PER ESSERE DAVVERO SOSTENIBILE
In questo percorso, se ai designer contemporanei è richiesto lo sforzo di bilanciare la qualità del proprio lavoro con la qualità dell’impatto derivato dalle proprio scelte, ai team marketing spetta la responsabilità di rappresentare questa transizione con trasparenza e onestà. E per fare questo ci vuole un po’ meno storytelling e un po’ di più realitytelling, un po’ meno art direction e un po’ più scienza. Senza venire meno alla magia che un abito e una campagna possono creare e alla funzione culturale della moda, è oggi richiesto all’industria intera un nuovo livello di consapevolezza scientifica del presente nel quale viviamo per il semplice fatto che gli ingredienti utilizzati per creare i vestiti sono gli stessi che servono per tenere in vita miliardi di specie viventi: acqua, aria, terra, energia. E continuare a sfruttarli e inquinarli per produrre numeri sempre più elevati di prodotti non essenziali, né rilevanti, equivale al suicidio. Dice bene il professor Otto von Bush quando parla di “Faust-Fashion” in riferimento allo stato attuale della moda: come nel dramma di Faust, assistiamo infatti oggi alla tragedia di un sistema avido che, indipendentemente dall’uso di materiali più o meno responsabili dal punto di vista ambientale, continua a cercare escamotage per sentirsi sempre più appagato dal punto di vista finanziario procrastinando il pagamento (collettivo) a un futuro non più tanto remoto. Le dinamiche di questo sistema stanno già costando la vita a milioni di umani, di specie vegetali, animali e di risorse naturali.
Siamo di fronte a una crisi cronica causata e perpetuata dal settore tessile che, finalmente, sembra non essere passata inosservata alla classe politica. Dagli Stati Uniti all’Europa stanno infatti emergendo proposte e pacchetti legislativi pensati per supportare l’inevitabile cambiamento del fashion system e reindirizzare i brand ad abbracciare una più ampia idea di sostenibilità. Come la “Strategia per Tessuti Sostenibili e Circolari” presentata il 30 marzo scorso dalla Commissione Europea. Un documento rilevante in quanto pubblicato da un ente politico che per la prima volta ha dato un segnale molto forte della comprensione del problema, portando sul tavolo strumenti per la sua risoluzione.
I 10 PUNTI CHIAVE EMERSI DAL REPORT DELLA COMMISSIONE UE
Ecco un riassunto dei 10 punti più significativi di questo report.
ECODESIGN
La Commissione UE fa sapere che verranno create linee-guida obbligatorie per indirizzare gli uffici stile e i designer europei a progettare capi più durevoli, riparabili, con filati riciclati (fibre-to-fibre) e privi di sostanze chimiche dannose;
NULLA SI DISTRUGGE
La comune pratica di distruggere capi invenduti verrà resa illegale. La Commissione UE precisa inoltre che l’eventuale distruzione di materiale tessile dovrà essere comunicata in modo trasparente.
STOP ALLE MICROPLASTICHE
Oramai arrivate anche nei nostri vasi sanguigni, le microplastiche hanno invaso il pianeta. Per ridurre d’ora in avanti il problema sono previste linee guida al design, prediligendo la scelta di materiali non sintetici, e incentivi per investimenti in tecnologie di filtraggio delle lavatrici industriali e domestiche.
TRASPARENZA
Nessun segreto, il mercato avrà il diritto di sapere come, dove, da chi e in che modo vengono realizzate tutte le componenti degli abiti che indossiamo. Parola d’ordine: trasparenza.
NO GREENWASHING
La Commissione UE vuole restituire all’aggettivo “green” il suo reale significato e chiede che ogni comunicazione sulla sostenibilità di un prodotto sia supportata da valide prove scientifiche. Dopo aver constatato con un recente sondaggio che il 40% dei claim di sostenibilità dei brand sono falsi, non saranno più concesse campagne di comunicazione ambiziosamente proiettate al futuro (es. “saremo climate-neutral entro il 2030”) se non fondate su concreti piani di sviluppo sostenibile. E si prevede anche che ogni brand dovrà comunicare ai clienti la durabilità commerciale dei propri prodotti e offrire servizi su come, eventualmente, ripararli.
EPR ‒ EXTENDED PRODUCERS’ RESPONSIBILITY
La responsabilità di un brand non terminerà più con la vendita! La Commissione UE ha infatti proposto che siano i brand ora a prendersi cura della gestione del fine vita di ogni articolo prodotto tramite il pagamento di una tassa dedicata che servirà a potenziare sistemi di raccolta, recupero e riciclo.
FAST-FASHION? OUT OF FASHION
Uno dei passaggi più significativi della strategia UE per la sostenibilità dei prodotti tessili è l’attacco frontale al business model dei brand fast-fashion, responsabili di aver innescato insostenibili cicli di sovrapproduzione e sovraconsumo. La Commissione chiede che venga ridotto, tra le altre cose, il numero di collezioni e drop annui. Bisogna sottolineare però come chiedere di “ridurre le collezioni” sia diverso dall’imporre una riduzione della quantità degli articoli prodotti, che sarebbe il vero traguardo. Pur riducendo il numero di collezioni, è comunque possibile aumentare le quantità assoluta di capi semplicemente redistribuendo il differenziale.
RICERCA E INNOVAZIONE
Sono stati annunciati sostegni alla ricerca per lo sviluppo di nuove tecnologie per il riciclo dei materiali tessili (fibre-to-fibre) e di nuovi materiali bio-based.
La Commissione UE insiste, giustamente, sul riciclo tessile da fibra a fibra e invita a ridimensionare la tanto popolare quanto inefficiente pratica del riciclo di bottiglie PET per la creazione di poliestere riciclato.
GIUSTIZIA SOCIALE
Riconoscendo che la maggior parte dei capi di abbigliamento sono oggi prodotti fuori dai confini europei, la Commissione chiede che gli articoli realizzati in condizioni avverse ai diritti fondamentali dell’uomo non siano più ammessi nel mercato europeo. Prodotti frutto di sfruttamento, oppressione, lavoro sottopagato e lavoro minorile dovranno essere banditi.
VINTAGE O SCARTO?
Recuperare vestiti usati per la rivendita è diventato sempre più difficile e costoso a causa della scarsa qualità progettuale iniziale dei capi. Costo che i Paesi occidentali esportano vendendo più della metà dei capi d’abbigliamento usati a Paesi extra UE le cui discariche e risorse naturali sono, però, oramai sature. Basti pensare al Ghana, dove si stima che ogni settimana transitino più di 15 milioni di vestiti gettati dai Paesi dell’occidente del pianeta con oramai scarsi benefici per l’economia locale. L’esportazione di vestiti usati, propone la Commissione, avverrà dunque solo verso Paesi che ne dimostrino la volontà e la capacita di gestione.
LA CULTURA DELLA SOSTENIBILITÀ COME INVESTIMENTO SOCIALE
Nonostante queste indicazioni non siano ancora legge, sono comunque un primo passo significativo. Fatto magari un po’ tardi, al limite della scadenza dei tempi massimi, come quando all’università ci si trovava a studiare la notte prima degli esami. Ma se ogni traguardo altro non è che un nuovo punto di partenza, siamo felici perché questa forte presa di posizione della Commissione UE ha dato nuovo slancio e vigore al viaggio. Dopo anni complessi (e frustranti per chi è attivo nel settore), in cui da una parte i grandi brand hanno giocato a definire la propria teoria di moda sostenibile, quella normalmente più conveniente per la salvaguardia dei propri interessi, e dall’altra parte un esercito di organizzazioni scientifiche, NGOs, attivisti, intellettuali e artisti provavano a fare contro-informazione oggettiva, ora la posizione della Commissione UE ha finalmente fatto chiarezza su molti punti.
A tutti noi, adesso, il compito di ripartire da qui più forti di prima, con pro-attività e voglia di partecipazione. Perché la sostenibilità non è una cosa che si può fare con un materiale o un disegno di legge. È un modus operandi che comporta un modo radicalmente diverso di percepire noi stessi e le nostre attività in relazione all’ambiente che deve coinvolgere tutti gli attori della società. È una cultura da internalizzare fondata su empatia, apertura, collaborazione e positività ‒ che è un significativo investimento sociale.
‒ Matteo Ward
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