Se il coraggio ci si può dare: come rilanciare le imprese culturali e creative

In un mondo in continua trasformazione, progettualità e visione strategica sono mezzi indispensabili. Anche e soprattutto per le imprese culturali e creative

Avevo immaginato un sottotitolo meglio esplicativo alla citazione manzoniana, ma mentre lo pensavo mi sono accorta che avrebbe appesantito (leggi spaventato) il lettore senza averne l’intenzione. Così lo inserisco qui, nel corpo del testo, provando nello spazio successivo a individuare una chiave meno pessimistica e più evolutiva delle nuove architetture di senso che si imporranno (anzi, che già si impongono). Se il coraggio ci si può dare: vita e sostenibilità degli enti e delle imprese culturali e creative tra pauperismo gestionale, viltà strategica e insonnia progettuale.
Non so quante e quanti si riconoscano in questa superficie specchiante riguardo al modo di operare e soprattutto di essere impresa (se pur in molti casi priva dello scopo lucrativo). Partiamo dal mezzo, dalla viltà strategica, spesso alimentata dall’alibi della non inclinazione giuridica alla propensione al rischio, derivante a sua volta dal rapporto sillogistico “non ho fine di profitto ergo non risico”: siamo sicuri che possa essere una possibilità? Qual è l’impresa senza rischio? È chiara la differenza sostanziale tra rischio (componente di chi fa impresa) e incertezza (stato fluido direi costante in cui l’impresa è immersa). E altrettanto chiaro dovrebbe essere l’assunto: per innovare bisogna costitutivamente rischiare.

“Abbiamo bisogno di tornare a sognare, come capacità immaginifica di pensare al nuovo”.

A volte, per molte istituzioni sarebbe sufficiente riprendere in mano il proprio statuto, rileggere l’oggetto sociale e il preambolo (ve ne sono di straordinari) sulle radici e la storia per cui sono nate e comprendere quale sia la loro naturale componente di rischio da una parte e istanza di visione strategica dall’altra. Non meravigliamoci poi se la gestione viene improntata a quello che definisco impropriamente pauperismo, in quanto non riconducibile né alla vocazione degli ordini mendicanti né alla decrescita felice. Rende però l’idea. Trattasi semplicemente di un’assenza di consapevolezza rispetto a concetti quali quelli di intrapresa e continuità aziendale, non dipendenti dalla mera logica dell’assistenzialismo di varia natura. E qui si arriva all’insonnia (letteralmente “assenza di sogni”) progettuale, poiché anche il mondo dei givers intorno a noi sta cambiando, e non soltanto quelli istituzionali con i loro provvidenziali grant. Così, insieme alla messa in sicurezza delle nostre imprese culturali e creative frutto anche di capacità di pianificazione e controllo – vero humus per la sostenibilità –, abbiamo bisogno di tornare a sognare, come capacità immaginifica di pensare al nuovo.

SPUNTI PER LE IMPRESE CULTURALI E CREATIVE

Vi sono più strade per farlo e ciascuna realtà è giusto che individui il proprio sentiero, con tempi e obiettivi diversi: dedicando risorse umane interne all’organizzazione e andando a creare un’area think tank (anche se siamo pochi!), costruendo alleanze inedite e disruptive (non sempre allineate e conformiste per tipologia e settore merceologico, please), chiamando qualcuno da fuori a pensare “out of the box”. O anche riprendendo in mano l’atto costitutivo e l’oggetto sociale, come si diceva, incrociarlo con il sito web e gli strumenti di comunicazione adottati (che troppe volte sono diventati erroneamente il sistema di valori) e mettere il tutto in filigrana con la governance e le persone: sarà un’epifania, ve lo assicuro.

Irene Sanesi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #64

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Irene Sanesi

Irene Sanesi

Dottore commercialista e revisore legale. Socio fondatore e partner di BBS-pro Ballerini Sanesi professionisti associati e di BBS-Lombard con sedi a Prato e Milano. Opera in particolare nell’ambito dell’economia gestione e fiscalità del Terzo Settore con particolare riferimento alla cultura,…

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