L’incredibile avanzamento tecnologico che sta caratterizzando questo preciso momento storico ci porta quotidianamente a confrontarci con termini e concetti che, di primo acchito, possono risultare ostici o non del tutto chiari. Per quanto neologismi come blockchain, NFT e metaverso continuino ancora ad apparirci poco limpidi, a brevissimo ci ritroveremo a comprenderli per forza di cose, facendone esperienza diretta in prima persona. Ma perché allora aspettare di lasciarsi travolgere dagli avvenimenti e non provare invece a esplorarli con lungimiranza? Di questo ne è fermamente convinto Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair, che con entusiasmo e curiosità ha iniziato già dallo scorso anno ad addentrarsi all’interno di una dimensione digitale tanto nebulosa, o addirittura distopica, quanto avveniristica e sconfinata, nel vero senso della parola.
COME NASCE E COME FUNZIONA METAVANITY
E così, dopo la realizzazione di una copertina in NFT (venduta per un valore di 25mila dollari) e del lancio dell’avatar personalizzato Vanity Player One, Vanity Fair fa il passo successivo annunciando – durante i giorni d’apertura della Biennale di Venezia 2022 – il suo vero e proprio debutto nel metaverso. Stiamo parlando di MetaVanity, un progetto ambizioso che prova a farsi largo in questo nuovo territorio ridefinendo, in qualche modo, anche il ruolo della stampa e delle realtà editoriali in generale. “Il metaverso è una frontiera, una frontiera dove la creatività non ha limiti”, afferma Marchetti, “dove l’esperienza è una cosa che non avevamo mai provato prima e dove probabilmente la moda e l’informazione troveranno un nuovo terreno fertilissimo”. Ma di cosa si tratta precisamente? “Quando a settembre 2021 abbiamo cominciato a lavorare con Etan Genini (amministratore delegato e co-fondatore della start up Valuart) ragionando su come un giornale dovrebbe debuttare nel metaverso non abbiamo fatto una sfilata o un’inchiesta, un’intervista o un concerto, abbiamo voluto fare un museo, un museo che ha la forma del Pantheon di Roma perché, a nostro parere, si tratta di costruire una nuova mitologia, cioè una mitologia di una religione che ancora non esiste e che noi dobbiamo inventare”.
L’ESPERIENZA ALL’INTERNO DI METAVANITY
Sviluppato tramite Unreal Engine 4, MetaVanity si presenta come un museo di criptoarte la cui fruizione è possibile sia tramite l’apposita app Hadam sia attraverso visori VR. La prima sensazione che si avverte accedendo all’interno di questo spazio è quella di trovarsi in un luogo solenne dove le tonalità scure fanno da padrone. Disposte in circolo, attorno a una sfera galleggiante nell’aria, vi sono 12 stanze dedicate tanto a mostre personali quanto a due progetti speciali: una collettiva (nella quale spiccano i nostrani Max Papeschi e Fabio Giampietro) e l’esposizione di una collezione in NFT di copertine di Vanity Fair. Da un punto di vista della navigazione, l’esperienza risulta abbastanza fluida, forse a tratti così tanto da favorire quel leggero senso di mal di mare – in gergo, motion sickness – proprio di una tecnologia come la Realtà Virtuale. Per quanto riguarda invece la proposta del museo bisogna purtroppo constatare che la qualità complessiva non è che sia così alta se pensiamo tanto alle opere in sé (tendenti quasi tutte verso un figurativo che, oltre all’effetto wow, non trasmette poi così tanto), quanto ad alcuni artisti invitati (uno su tutti l’imbarazzante Federico Clapis). Fra i lavori degni di nota ricordiamo invece le sorprendenti composizioni floreali in tre dimensioni di Luna Ikuta, le oscure e affascinanti sculture di Billelis, le installazioni psichedeliche di neurocolor e Quasimondo, e le installazioni di Skygolpe la cui resa grafica lascia intendere una cura certosina anche verso la realizzazione di quei supporti allestitivi che non fanno propriamente parte dell’opera. Tra gli altri partecipanti all’iniziativa: i criptoartisti di fama internazionale Coldie e Jesse Draxler.
QUALE FUTURO PER IL METAVERSO?
Entusiasmi a parte, che tanto portano alla memoria gli echi di imbonitori alle prese con le lanterne magiche, rimangono inevitabilmente delle perplessità relative sia alle criticità di un fenomeno simile (pensiamo non solo all’impatto sul nostro pianeta che implica la generazione di un NFT, quanto al rischio di alimentare un’insaziabile bolla speculativa) che all’apporto culturale effettivo di tutte queste elaborazioni digitali che il più delle volte rimangono fine a sé stesse (si vedano ad esempio i Cryptopunk, le cosiddette Bored monkeys o anche i lavori di Beeple). Il rischio ultimo è quello di assistere a un progressivo deterioramento qualitativo dell’arte in circolazione – e non ci si riferisce solo alla mera resa estetica di questi prodotti quanto soprattutto al concetto dietro di essi che troppo spesso è del tutto assente – che porterà inevitabilmente a un impoverimento generale con cui potremmo fare i conti. Ma non fasciamoci la testa prima di averla digitalizzata e confidiamo in una presa di coscienza collettiva che porti concretamente a un nuovo Rinascimento anche perché, come ha affermato il direttore di Vanity Fair: “Questo è solo il debutto, è un modo di fare vedere quanto quella sia una realtà editoriale, una realtà dove le storie possono diventare potentissime, dove i prodotti non hanno confini, dove la moda potrà inventarsi un abito che ancora non esiste, un luogo veramente di grande possibilità e la nostra avventura è soltanto all’inizio”.
LA COLLABORAZIONE TRA VANITY FAIR E CECILIA ALEMANI
L’ingresso di Vanity Fair nel metaverso non è però l’unica novità di questi giorni per la nota testata italiana. In occasione delle giornate inaugurali della 59. Biennale di Venezia, Vanity Fair introduce infatti un ospite d’eccezione all’interno del suo ultimo numero: stiamo parlando nientepopodimeno che di Cecilia Alemani. Ad aprire l’editoriale è infatti proprio lei, invitata per l’occasione a tessere un file rouge che attinge da alcune tematiche presenti ne Il latte dei sogni (dall’importanza della meraviglia e della metamorfosi nelle nostre vite) per unire insieme i racconti di personaggi quali Sharon Stone, Miro e il neuroscienziato Giulio Bernardi.
– Valerio Veneruso
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