Il design del passato alla prova del futuro. Intervista a Bas van Beek
Quanto le collezioni di oggetti di design conservate presso i musei possono influenzare i designer di oggi nella progettazione consapevole dal punto di vista etico-sociale? Lo abbiamo chiesto al designer Bas van Beek, in mostra a Miami
Anche se il museo come luogo della conservazione oggi spesso non è accessibile in termini di totale visibilità, esso rappresenta comunque una fonte di idee cui il design contemporaneo guarda con rinnovata attenzione. A questo proposito risulta esemplare una realtà come il Depot, struttura semi ovoidale a specchio riflettente firmata dallo Studio MVRDV e inaugurata qualche mese fa a Rotterdam come corollario del Boijmans van Beuningen Museum, a lungo chiuso per lavori di ristrutturazione: grazie alla trasparenza delle sue scansioni interne in vetro, rende “accessibili” alla vista molti degli oggetti d’arte appartenenti al museo stesso, esplicitando, attraverso le modalità di un esorbitante show-off, la volontà di attuare un’esaustiva valorizzazione delle opere qui conservate, testimoniare il percorso progettuale compiuto nei secoli – sia di proto design che di design –, nonché alimentare la creatività di autori che dalla storia traggono linfa vitale.
IL DESIGN SECONDO BAS VAN BEEK
Uno di loro, di certo fra i più attenti al dibattito sul ruolo del designer che si muove nel solco della tradizione, seppur con intenti talvolta eversivi, è l’olandese Bas van Beek (Nijmegen, 1974), designer e docente con studio a Rotterdam e diffusamente attivo sul territorio olandese, oggi protagonista della mostra Shameless by Bas van Beek, aperta a Miami negli spazi di The Wolfsonian-FIU (e visitabile fino al 24 luglio 2022). Silvia Barisione, chief curator dell’istituzione creata negli Anni Ottanta a Miami dal collezionista statunitense Mitchell Wolfson Jr., che nei Novanta ha poi aggiunto alla sede della Florida quella di Genova (Wolfsoniana), spiega nell’introduzione del catalogo: “‘Shameless’, che rappresenta il debutto di Van Beek negli Stati Uniti, cominciò come commissione di The Wolfsonian-FIU finalizzata allo sviluppo di un’installazione che traesse spunto dalle sue collezioni storiche”. E, a proposito del designer, la curatrice spiega anche come la parola shameless, adottata come titolo, “alluda a un approccio provocatorio che oltrepassa i confini di tempo, genere, spazio”.
BAS VAN BEEK E IL DESIGN DI IERI E DI OGGI
Non a caso, una delle finalità dell’Istituzione stessa, presso cui sono conservati – fra migliaia di pezzi di valore culturale –, anche numerosi oggetti di design olandese databili fra il 1890 e il 1940, è proprio quella di studiare, contestualizzare e incentivare la rilettura delle collezioni esistenti per trarne nuovi input progettuali. D’altra parte Bas van Beek non è nuovo a imprese di tal genere, perché già da tempo ha intessuto una rete di rapporti di collaborazione con istituzioni olandesi – Het Nieuwe Instituut e Boijmans Van Beuningen Museum a Rotterdam, Van Abbemuseum a Eindhoven, Stedelijk Museum Amsterdam, Kunstmuseum Den Haag –, attuando un processo di “manipolazione” (assemblaggio o collage, in senso creativo), e attualizzazione degli oggetti storici da esse custoditi, anche a fini didattici. Basti un esempio: Van Beek introdusse nel 2021 al Caffè Shop del Kunstmuseum Den Haag tazze e piattini modulari basati su un disegno degli Anni Venti del Novecento dell’architetto olandese Karel De Bazel, ma anche allusivi all’Hollywood Collection, ovvero arredi per la tavola progettati negli Anni Settanta per Alitalia da Joe Colombo, Ambrogio Pozzi e Marco Zanini, e a pattern ornamentali di H.P. Berlage, l’architetto che firmò il museo stesso. Una pratica, quella esplicitata da Van Beek, volta a indagare lo stato del cultural heritage internazionale, e a conferire a esso nuovi significati.
INTERVISTA A BAS VAN BEEK
Qual è l’origine del suo interesse per l’heritage design?
Mi avvicinai al filone storico quando cominciai a lavorare sulla collezione – fisica e digitale – del National Glassmuseum di Leerdam. The Glass Factory Leerdam è stata la prima nei Paesi Bassi a digitalizzare il suo archivio. In particolar modo, la tecnica del vetro pressato, che fu in uso tra gli Anni Venti e i Sessanta del secolo scorso, mi offrì una miglior comprensione del design stesso. Venni a sapere che Frank Lloyd Wright aveva disegnato per l’azienda non solo un vaso, ma anche tazze e piattini che non entrarono mai in produzione. Il celebre architetto non aveva esperienza nella tecnica del vetro pressato, e alcuni suoi pezzi avrebbero potuto essere stampati solo in 3D, cosa che io ho poi fatto. Una volta presa confidenza con il prodotto, fui in grado di disegnare nello stesso stile una caffettiera, che mancava nel set, estrapolandola dal progetto originale.
Quali furono gli sviluppi successivi?
Quell’esperienza, che arricchì le mie competenze, suscitò in me l’interesse per altre realtà: per esempio, per il Bauhaus Archive a Berlino e per il Wiener Werkstätte Archive presso il MAK a Vienna. Si tratta di situazioni totalmente differenti, direi agli antipodi, ma per alcuni aspetti ho trovato un approccio comune, dei punti di vicinanza fra minimalismo industriale e “frivolo” decorativismo: non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, ma presentano origini comuni. Quest’indagine mi spinse a cercare architetti, designer e artisti che presentassero delle affinità.
In che cosa è sfociata questa ricerca?
Per l’esposizione From Thonet to Dutch Design, tenutasi allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 2020, misi in luce le connessioni fra il pattern di un wallpaper di Dagobert Peche e alcuni lavori di Ettore Sottsass e Nathalie du Pasquier. Un legame analogo può essere individuato fra Frank Lloyd Wright e Verner Panton. L’installazione che ho realizzato nella lobby a Miami per Shameless si può considerare come un “ponte” che aiuta a comprendere il nesso tra loro. Al di là di tali operazioni, non si può più considerare l’architetto-artista-designer come un genio isolato, piuttosto un anello della storia della cultura dell’umanità, partendo dalle Piramidi e dal Pantheon.
Quali invece i suoi rapporti con il Boijmans van Beuningen Museum di Rotterdam?
Qualche anno fa divenne chiaro che il museo doveva chiudere per lungo tempo per questioni di sicurezza. Il problema che si presentò fu cosa fare delle sue collezioni che coprono oltre seicento anni di storia dell’arte e del design. Con Annemartine van Kesteren, contemporary design curator, si pensò che potesse rappresentare un’opportunità convertire la collezione in qualcosa che attirasse l’interesse del pubblico cittadino che generalmente non va a visitare i musei. Nacquero così mostre in luoghi decentrati come The Drive Thru (visitabile da un veicolo privato, a causa del Covid-19) e la Collectie op Zuid (Collection in the South). Quest’ultima comprende vari prodotti proposti in vendita in alcuni shop di Rotterdam-Zuid, un’area periferica della città con un alto tasso di immigrazione: a Natale scorso sono stati proposti ornamenti per l’albero concepiti come micro architetture – un omaggio alla Futuro House dell’architetto scandinavo Matti Suuronen, o una sorta di commistione tra la Van der Steur Tower del museo e il nuovo MVRDV Depot –, oppure sculture da acquario per bambini acquistabili nei pet store. Pensai che, comprando il loro primo pesce rosso, volessero per il loro acquario anche la scultura Telefono-aragosta che ho realizzato ispirandomi a Salvador Dalí. Più avanti, quando avranno diciotto anni e visiteranno il Boijmans, potranno scoprire la versione originale dell’opera dell’artista spagnolo. E così potranno sviluppare un più preciso interesse per gli oggetti d’arte del museo stesso.
Dunque il suo con il Boijmans è un rapporto molto stretto?
La ragione per cui mi sono trasferito negli Anni Novanta a Rotterdam è proprio perché pensavo fosse un luogo entusiasmante, dove tutto fosse possibile. Nel 2004 in effetti il museo iniziò a collezionare le mie opere: oggi spero di incrementare Collectie op Zuid per i prossimi dieci anni.
IL SOCIAL DESIGN SECONDO BAS VAN BEEK
Il museo è diventato spazio sociale, sempre meno tempio del godimento estetico, e lei stesso ha contribuito a distruggere l’immagine tradizionale del museo. Al Boijmans si parla da tempo di social design: quali conseguenze ha portato, secondo lei?
I designer stanno entrando avidamente in questo nuovo mercato, sfoggiando la loro superiorità morale, cercando i prossimi gruppi di persone da aiutare: poveri, malati, immigrati. Social design significa anche cercare di rimediare a insuccessi politici.
Pensa che il design frutto dell’heritage culturale per essere legittimato debba passare attraverso un’esposizione museale?
Un museo pubblico ha il compito non solo di collezionare opere di valore culturale, ma anche di conservarle per le future generazioni. Si tratta di un processo circolare. Dipende molto dal pubblico che decide che cosa va acquistato e quando. Il New MoMA rappresenta un importante esempio di questo fenomeno: di recente ha cominciato a collezionare oggetti che fino a poco tempo fa ignorava o rifiutava perché riteneva che per qualche ragione non si addicessero alle sue collezioni. E non appena qualcosa entra nelle sue collezioni certo è destinato a essere riconosciuto come significativo dal pubblico. Tuttavia non sta al museo legittimare o rafforzare il valore e lo status del brand di designer-artisti. Questo potrebbe invece rientrare nelle finalità di istituzioni private, dove le collezioni rappresentano soprattutto un patrimonio “monetario” che va protetto.
Ritiene che i suoi prodotti siano riservati solo a un’élite di mercato o, invece, siano accessibili al grande pubblico?
I vasi in ceramica JVDV che Cor Unum produce a Den Bosch sono ricavati dal lavoro svolto negli Anni Sessanta dal ceramista Jan van der Vaart. Abbiamo cercato di renderli accessibili al pubblico dei Paesi Bassi quanto più possibile, partendo da 139 euro circa. Il significato sta nella forma geometrica del vaso stesso e presumo questo sia un linguaggio universale che tutti possono capire. Il prezzo è simile a quello di un paio di jeans Levi’s, certo per un vaso si tratta di un costo superiore a quello che si pagherebbe per un prodotto IKEA…
Pensa che comunque il mercato comune possa capire il significato di un’operazione culturale che consiste nel mescolare pattern storici in nuovi prodotti?
Parte del problema della produzione culturale contemporanea sta nel fatto che deve assecondare i principi morali e intellettuali della classe borghese. Se il prodotto non ha significato e non rappresenta una sfida sul piano intellettuale non è riconosciuto come qualcosa di culturalmente importante. Peggio, l’élite culturale considera che si debba obbligatoriamente educare la gente comune, ed elevarla rispetto al suo gusto “sottosviluppato”. Henry Geldzahler, contemporary art curator al MET di New York negli Anni Sessanta e Settanta, era molto irritato da ciò che considerava una falsa dicotomia tra élite e popolino. Per lui tutto rientrava in un continuum, in un’unica, vasta entità culturale. IKEA non esisterebbe senza il Bauhaus.
‒ Alessandra Quattordio
Miami // fino al 7 agosto 2022
Shameless
THE WOLFSONIAN–FIU
1001 Washington Avenue
https://wolfsonian.org
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