Come un set cinematografico. Il Padiglione Italia alla Biennale letto attraverso il tempo
Christian Caliandro “legge” il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti alla Biennale di Venezia usando la lente del tempo, della realtà e dello spettatore. E individuando nella “finzione” uno dei suoi aspetti peculiari
Il Padiglione Italia alla Biennale di quest’anno – Storia della Notte e Destino delle Comete di Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) ‒ è attraversato da una serie di problemi e di criticità, che hanno a che fare principalmente con il rapporto tra opera e: tempo, realtà, spettatore.
Tutto il primo atto è caratterizzato da un approccio nostalgico e da una fascinazione per il passato (un passato preciso: gli Anni Sessanta, e soprattutto Settanta, italiani), peraltro evidente in gran parte dei lavori precedenti di Tosatti, fino al punto da essere diventato una sua ‘cifra’. È quindi abbastanza sorprendente che l’artista abbia affermato: “Chi l’ha visitato ha creduto di assistere a degli scenari industriali degli anni ’60-’70, invece sono macchine che abbiamo preso da fabbriche fallite durante la pandemia. Questo mi fa pensare che la nostra idea del lavoro sia ferma a decenni fa”. Certo, i macchinari esposti provengono da fabbriche fallite di recente, ma è la prospettiva, l’ottica interpretativa in cui sono esposti – e in cui viene esibito il ‘declino industriale italiano’ ‒ che appartiene al passato: indizi in questo senso sono il timbracartellini e la radiolina del primo ambiente, così come Senza fine cantata da Ornella Vanoni, l’appartamento (del custode? o del proprietario?) in cima al secondo ambiente, con il suo arredo, la carta da parati e il telefono appeso al muro… Noi che percorriamo questi ambienti siamo inevitabilmente indotti a percepirli attraverso questa lente (o questa patina?).
TEMPO E REALTÀ NEL PADIGLIONE ITALIA
Il rapporto con il tempo ci conduce a quello, più complesso, con la realtà. Mi sembrava che la forza delle opere di Tosatti (parlo di quelle che ho visitato e di cui ho scritto, dunque le installazioni del progetto napoletano Sette Stagioni dello Spirito) consistesse proprio nel riattivare la vita sopita dei luoghi originari. Evidentemente mi sbagliavo. Quando il curatore Eugenio Viola, all’interno del catalogo, chiede a Tosatti che cosa abbia significato per lui questo “capovolgimento rispetto alla tua pratica abituale”, l’autore risponde: “Non è stato un vero sconvolgimento. Quest’opera non nasce da un capannone vuoto. Nasce da altri spazi della realtà, che però non sono a Venezia. Abbiamo attraversato molte fabbriche in giro per l’Italia”. A me pare che il capovolgimento/sconvolgimento ci sia eccome, e consiste nel fatto che se si trasportano dei macchinari in disuso all’interno di un guscio vuoto, l’effetto poi – anche non voluto ‒ è quello della finzione di un set, di un senso ineliminabile di vuoto e di immobilità, di un’assenza di eco e risonanza che non ha a che vedere con la storia che si vuole raccontare. (Per citare un esempio caro a Gian Maria, è come se Rossellini avesse deciso di girare Roma città aperta in studio invece che nello spazio urbano: dubito che il Neorealismo sarebbe stato quello che tutto il mondo ha conosciuto.)
TOSATTI E GLI SPETTATORI DEL PADIGLIONE ITALIA
Ecco, appunto: la storia che si vuole raccontare. Arriviamo dunque al tipo di rapporto stabilito con lo spettatore. L’idea (dichiarata esplicitamente dall’artista e dal curatore) è quella di trasformare quest’ultimo nel vero performer, che compie e vive la sua esperienza all’interno dell’ambiente – un “dispositivo intermediale complesso” (Viola): il che presuppone, ancora una volta, l’attivazione dell’osservatore, la sua trasformazione per così dire in qualcos’altro, o qualcun altro. Ma, già all’ingresso, gli operatori ci avvisano di osservare un rigoroso silenzio durante l’attraversamento; e, più avanti, una signora indica il percorso da seguire (da qui a lì: e non tornare indietro, mi raccomando). Arrivato alla conclusione, quel secondo atto (il mare ondoso) che indubbiamente costituisce l’ambiente più valido di tutto il progetto e che è concepito come una vera e propria “epifania”, improvvisamente capisco: Pasolini!… la scomparsa delle lucciole (quella del famoso articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975)!… e quelle che si vedono non sono vere lucciole, ma semplici lampadine. L’epifania non è una vera epifania ‒ ma solo la sua simulazione.
UN PROBLEMA DI SOSTENIBILITÀ
Ecco, forse, qual è il problema principale, che in qualche modo racchiude tutti gli altri: non è lasciato alcuno spazio all’imprevisto, questa esperienza che io faccio non è veramente mia – ma è indotta. È quella che qualcun altro (l’autore) ha predisposto e allestito per me; è quella articolata dai contenuti e dai riferimenti sparsi in testi e comunicati e conferenze stampa (Rea, Zanzotto, la Ortese, Pasolini ovviamente, Saviano) che però qui, in questi ambienti ricostruiti, letteralmente non sembrano esserci.
(Così come non sembrano esserci la pandemia, e neanche l’ecologia: mi sembra difficile infatti svolgere in maniera convincente un discorso del genere proprio all’interno di uno spazio, già di per sé sovradimensionato, in cui è stata costruita una “struttura-guscio autoportante” e in cui sono stati trasferiti questi enormi macchinari che andranno immagino smaltiti alla fine della Biennale… In generale, mi pare che il gigantismo e l’approccio muscolare non si concilino molto bene con l’ecologismo, l’ambientalismo e la sostenibilità.)
I ‘contenuti’ sono proiettati dall’esterno verso questo interno, cioè nell’opera; la storia e la sua interpretazione sono uniche, e provengono anche queste da fuori; gli spettatori dunque ‒questi performer ideali e idealmente autonomi ‒ vengono invece agiti, quasi “sopraffatti” da ciò che stanno materialmente attraversando e dai suggerimenti immateriali di cui sono oggetto. Una volta fuori, mi rendo conto che sono rimasto spettatore o, come avrebbe detto Carla Lonzi, l’opera – e il suo autore – mi hanno lasciato spettatore.
‒ Christian Caliandro
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