Il grande ritorno di Louise Nevelson a Venezia
Louise Nevelson, nata in Ucraina e morta nel 1988, torna a Venezia dopo sessant’anni. Aveva 61 anni quando fu invitata a partecipare al Padiglione americano della Biennale. La storia umana e artistica di una grande maestra
Louise Nevelson, Persistance, alle (restituite) Procuratie Vecchie di Venezia è forse la mostra che meglio si inscrive in quel progetto di riscrittura della storia dell’arte in chiave femminile portato avanti dalla mostra Il latte dei sogni, la Biennale di Venezia quest’anno a cura Cecilia Alemani. E che, ironia della sorte, conduce anche lo sguardo e le riflessioni, più di altre operazioni, a quella guerra che in Laguna è stata così lontana, ma che nel pensiero e nella cronaca di tutti i giorni continuava a essere vicina.
CHI ERA LOUISE NEVELSON
Già, perché la Nevelson in realtà si chiamava Leah Berliawsky e nasceva a Kiev, in Ucraina, nel 1899, fuggendo nel 1905 con la famiglia perché ebrea e migrando a New York. Diventa Nevelson qualche anno più tardi, sposando a soli 17 anni Charles. Il matrimonio naufraga nel 1941, tuttavia il marito la sostiene nella carriera d’artista, che mette il primo punto nel 1935, quando la critica americana comincia a rivolgerle attenzione. E tuttavia la mostra veneziana, curata dalla studiosa Julia Bryan-Wilson, docente a Berkeley (è di prossima pubblicazione un suo catalogo dedicato all’artista nel 2023), non manca di sottolineare quanto per Louise fosse difficile far emergere e accettare il proprio lavoro, così poco muliebre, in un mondo di artisti e critici maschi. Una storia non incomprensibile, se consideriamo le proporzioni monumentali e muscolari delle sue pareti, l’utilizzo efferato del nero, l’attenzione a temi solitamente attribuiti agli uomini come le armi – la serie Artillery che detourna le scatole belligeranti che in guerra contengono le munizioni è esemplare in tal senso ‒, le strutture aggettanti che cercano la luce, la scultura che abbandona i basamenti per articolarsi nello spazio, la concessione agli ornamenti femminili solo in qualche collage, l’utilizzo degli oggetti che non è da meno e si rispecchia negli assemblaggi altrettanto pioneristici del quasi coetaneo Joseph Cornell devono essere sembrati quasi un affronto. Perché alle donne veniva richiesto altro.
IL FANTASMA DELLA BIENNALE DI VENEZIA
Di Nevelson l’allestimento presenta opere dagli Anni Cinquanta agli Ottanta (l’artista muore nel 1988). Ci sono le sculture ambientali degli Anni Sessanta e Settanta, l’onnipresente legno che “eredita” dal padre che lavorava nell’edilizia e dal nonno che aveva una fabbrica di legnami in Ucraina, ci sono le rare sculture bianche – la prima è Dawn’s Wedding Feast presentata nel 1960 al MoMa di NY, nell’esposizione 16 Americans (era come sempre la più anziana, contro un Frank Stella maschio e 23enne) a cura di Dorothy Miller, ma a Venezia c’è Dawn’s Presence – Three del 1975 – o dorate, come The golden pearl del 1962. Non manca un tocco di nostalgia (e sì, non manca mai), con il reenactment fotografico della sala del Padiglione americano alla Biennale di Venezia del 1962 – ricorrono infatti 60 anni – organizzato dal MoMa di New York, con René D’Harnoncourt e Waldo Rasmussen come commissari e in compagnia degli artisti Dimitri Hadzi, Loren Maclver e Ian Müller, tutti più giovani di lei di 10 o 20 anni. Una operazione che sembra significare un ritorno da vincitrice a Venezia più che aggiungere sapore scientifico, avendo però il merito, in una esposizione che presenta lavori notevoli con un allestimento tuttavia non sempre avvincente, di sottolineare la grandezza dell’opera di Nevelson, “proliferante presenza”, per dirla con le parole di Carla Lonzi, scritte proprio nel 1962, “di totale ambiguità femminile”. Su una strada sempre in salita, fino alla fine, e che ora ha superato il tempo.
– Santa Nastro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati