Biennale di Venezia 2022: opere XXL e monumentalità
Una lettura della Biennale di Venezia appena inaugurata dal punto di vista delle dimensioni. Sono moltissime, infatti, le opere poderose, non solo nei Padiglioni nazionali e all’Arsenale
C’era un tempo in cui l’arte di proporzioni monumentali e di formato tradizionale avrebbe provocato un certo disagio. Opere del genere avrebbero sollevato il sospetto di prostrarsi al potere egemonico. Specialmente la pittura era additata di essere colpevole di perpetuare un canone che escludeva le mille voci minoritarie; se poi era sovradimensionata, tanto più era considerata oppressiva secondo questa logica. Neanche la scultura si salvava se non si dimostrava sufficientemente d’avanguardia, de-materializzata o votata a un’estetica documentarista di critica. Anselm Kiefer ‒ che mostra dei dipinti giganteschi al Palazzo Ducale in concomitanza della Biennale – era uno dei principali artisti contestati per questi motivi da parte degli artisti concettuali e dei teorici e critici impegnati nella critica culturale degli Anni Ottanta. Da allora molto è cambiato: il 2022 è la Biennale delle opere enormi e molte di loro sono sorprendentemente tradizionali nel loro formato. Ma il cerchio non si è chiuso; il significato delle dimensioni nell’arte è cambiato profondamente nel contesto attuale, con il contenuto fresco delle opere presentate alla Biennale di Cecilia Alemani e una lista di artisti che è decisamente la più inclusiva della storia dell’esposizione internazionale d’arte ricorrente dal 1895. Il risultato è un gran numero di opere particolarmente ambiziose a Venezia quest’anno, molte delle quali sono mastodontiche.
DA SIMONE LEIGH A LATIFA ECHAKHCH
Le sculture massicce di donne black di Simone Leigh presiedono maestosamente sulla kermesse e hanno portato l’artista nativa di Chicago a vincere il Leone d’Oro, premio che – per quanto riguarda i padiglioni nazionali – è andato alla britannica Sonia Boyce. La loro imponenza testimonia le pressioni a cui le donne di colore specialmente sono sottoposte, ma anche la loro forza e bellezza. I monumentali ritratti di afroamericani qualsiasi e la scultura equestre del giovane eroe nero senza vita di Kehinde Wiley usano la grandezza dimensionale delle opere per compensare secoli di razzismo istituzionalizzato in cui i neri sono demonizzati e/o esclusi dalle immagini e dalla rappresentazione nel senso più ampio. Il vasto quadro di Louise Bonnet raffigurante colossi di donne che sprigionano fluidi corporei – del latte zampilla dal seno di una, un’altra accovacciata rilascia urina, mentre inspiegabilmente altra urina sale nell’aria dal pube di una donna semisdraiata – mette in primo piano l’intimità vulcanica del corpo femminile. Sottolineando quanto insolente e ribelle il nostro corpo può essere anche malgrado noi stessi, Bonnet raffigura le secrezioni come coni che assomigliano ai coni di luce dei riflettori, come per enfatizzare le funzioni naturali del corpo. La scultura di Katharina Fritsch si posa su un piedestallo di dimensioni più consuete a un monumento per il centro di una piazza che un’opera al coperto. Su di esso posa una riproduzione fedele di un elefante a grandezza naturale, che è il mammifero più grande terrestre e un esempio lampante dal regno animale di una società matriarcale articolata e altamente funzionante.
Dimensioni XXL sono state accompagnate da ambizioni importanti anche in opere di formato meno canonico. L’installazione vasta e complessa di Zineb Sedira nel Padiglione francese prende come spunto i film europei e nordafricani degli Anni Sessanta e Settanta – un periodo di grande speranza per la liberazione da ogni tipo di oppressione e della sconfitta del colonialismo, ma anche l’inizio della migrazione verso l’Europa – in cui l’artista algerina-francese intreccia storia, autobiografia e narrazione in una Gesamtkunstwerk onnicomprensiva. L’immenso arazzo di Igshaan Adams, che spazia oltre dieci metri in larghezza ed è composto da perline, conchiglie e pezzetti di legno e plastica recuperati, traccia una mappa delle cosiddette ‘linee di desiderio’, sentieri creati sul terreno dal calpestio giornaliero delle persone in migrazione verso una delle zone industriali di Cape Town in cerca di lavoro. Latifa Echakhch nel Padiglione svizzero ha creato un ambiente di grandi sculture che echeggiano statue folk fatte principalmente di materiale recuperato da Biennali precedenti e residui di paglia e legno bruciato. Come con le ‘madeleine’ di Proust, nello spettatore viene attivato l’olfatto dall’odore di bruciato, oltre che il tatto sotto i piedi dalla soffice superficie di residui che copre il pavimento, senza contare l’effetto dato dalle luci ritmiche sintonizzate a una composizione musicale commissionata appositamente.
Lo schermo LED di Wu Tsang, che si distende per sedici metri, incide sul nostro senso di orientamento in modo diverso, relativizzandolo e ridimensionandolo. Ci mostra il mondo visto dalla prospettiva di una balena, ossia mette lo spettatore nella posizione del mammifero gigante del mare – il che inevitabilmente richiama l’enormità dei disastri ecologici che affliggono il mondo a cominciare dal cambiamento climatico. La questione del nostro posto nell’universo, invece, è tematizzata da Yunchul Kim in una scultura cinetica che si muove, cambia colore e luminosità a seconda dei muoni che entrano nell’atmosfera della terra dallo spazio, rivelati da una scultura-recettore collocata in un’altra zona del padiglione coreano. Di fatto Kim incorpora l’immensità nella sua opera, rendendola di una magnitudine al limite dell’immaginabile. Jacqueline Humphries va nella direzione opposta, verso l’infinitesimale, nel suo dipinto lungo 1270 centimetri composto da cinque tele che si ispira al cosiddetto rumore bianco, ossia il ronzio emesso dalla tecnologia che il più delle volte passa inosservato. Lo spettatore sprofonda in quelle che sembrano le minuzie grafiche che compongono le immagini sugli schermi ingigantite milioni di volte, una visuale che rende iper palpabile la matrice del paesaggio tecnologico che ci circonda nel quotidiano.
DA GIAN MARIA TOSATTI ALLA SCELTA DEGLI ARTISTI RUSSI
L’installazione immersiva di Gian Maria Tosatti nel padiglione italiano riflette sulla rapida obsolescenza della tecnologia e dei modi di produzione che implica. L’artista ricrea un’intera fabbrica di abbigliamento e un altro sito di produzione industriale dotato di macchinari chiaramente desueti. C’è una camera da letto matrimoniale soprastante la fabbrica, in cui la forza lavoro è tradizionalmente femminile, portando a pensare ai soprusi che ci potevano essere stati. In quella camera vintage alleggia l’impronta di un crocifisso ‒ la carta da parati ha mantenuto il suo colore originale dove risalta la forma della croce che non c’è più, mentre il resto è pregno di un alone di vecchiume. Il tutto suggerisce un inquietante senso del datato in una visione distopica dell’Italia post-Miracolo Economico. Lontano dalla sobria malinconia, una rabbia feroce pervade l’installazione sonora di Marco Fusinato nel padiglione australiano, una installazione gargantuesca per l’intensità dell’impatto che esercita sul visitatore.
Non soddisfatti di creare semplicemente lavori grandi, alcuni artisti hanno trasformato interi padiglioni in opera d’arte. Leigh ha tramutato l’esterno del padiglione americano fino al punto di renderlo irriconoscibile: disorientate, le persone che conoscevano l’architettura “federale” del palazzo firmato Sanford White andavano in giro chiedendo dove si trovasse il padiglione americano. L’artista ha ricoperto l’esterno della palazzina di paglia dandole una forma che richiama l’architettura dei padiglioni del Cameroon e del Congo Belga all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931. Giace su una piattaforma marmorea bianca creata da lei, che ha dotato di un accesso per sedie a rotelle. Maria Eichhorn ha scavato nelle fondamenta e raschiato i muri del padiglione tedesco portando alla luce la sua storia e quella della sua nazione: ha rivelato il modesto padiglione bavarese originario che fu fatto proprio dai nazisti e inglobato in un padiglione nazionale di proporzioni imponenti. Inoltre Eichhorn ha esteso il suo contributo alla Biennale a tutta la città di Venezia tramite gite organizzate ai suoi luoghi della Resistenza al nazi-fascismo e della Memoria.
Ignasi Aballi ha ‘corretto’ l’angolatura del padiglione spagnolo sull’asse principale del Giardini, girandolo di 10 gradi, per farlo stare in linea con i padiglioni del Belgio e dei Paesi Bassi ai suoi lati, come se volesse consolidare la posizione spagnola saldamente dentro l’Europa.
Senz’altro l’intervento artistico più coraggioso di questa Biennale, e forse di tutte le Biennali nella storia di Venezia, è quello del curatore Raimundas Malašauskas e degli artisti Kirill Savchenkov and Alexandra Sukhareva, che hanno fatto una potente dichiarazione contro l’invasione militare dell’Ucraina chiudendo il padiglione Russo tout court. La loro mossa di ‘sottrazione’ fa del padiglione un vuoto pregnante. Esso rigetta la Russia di Putin, che esclude dal concerto di nazioni lì riunite all’insegna dell’arte e della creatività, per definizione forza generatrice positiva diametralmente opposta a un espansionismo bellico che tenta piuttosto di annientare una nazione. I tre intrepidi russi, nel manifestare la loro protesta, corrono gravi pericoli personali da non sottostimare.
Altri artisti a cui la singola immagine non è stata sufficiente hanno ideato cicli di opere per esprimersi più pienamente. Charline von Heyl ha creato un ciclo di dipinti come parte del Primavera Project, una collaborazione fatta con diversi compositori musicali, che si riferisce al mito di Zefiro e Cloris/Flora ‒ la semi-dea che domina sulla primavera ‒ in una visione decisamente meno bucolica della Primavera di Botticelli a cui si ispira. Qui la fiorita trasformazione della natura primaverile, metafora di promettente crescita, è minacciata da forze oscure incombenti rappresentate dall’abbondante uso che von Heyl fa di carboncino e vernice nera opaca. L’artista rom-polacca Małgorzata Mirga-Tas ha creato un triplice ciclo di arazzi cuciti a mano che coprono le intere mura interne del padiglione polacco in continue fasce orizzontali ispirate dagli affreschi del Palazzo Schifanoia di Ferrara, e che proseguono sull’esterno del padiglione per la sua altezza al fianco dell’entrata. Un livello ritrae scene di vita quotidiana rom con particolare attenzione alle attività svolte dalle donne, un altro rappresenta la storia mitizzata della loro migrazione in Europa e il terzo usa l’iconografia astrologica ferrarese trasportata nel contesto rom. Spicca una felice complicità tra l’intimità propria del cucire e la maestosità della sua opera espansiva.
La particolare imponenza di molte delle opere di questa Biennale ci spinge a prestare maggior attenzione a formati artistici e a culture di solito emarginate dal mercato e dalle istituzioni.
DANIEL RICHTER E ANSELM KIEFER
Anche i due pittori ben affermati Daniel Richter e Kiefer hanno presentato cicli di opere. I quadri semi-astratti di Richter alla Scuola Grande di San Fantin – a suo tempo colloquialmente chiamata “Scuola della Buona Morte” – suggeriscono figure militaresche mutilate su estensioni di colori vivaci. Al piano superiore sono esposte una miriade di cose effimere dalla collezione personale dell’artista, da cui trae spunti per le sue opere, come una copia del libro SCUM Manifesto della femminista radicale Valerie Solanas – la stessa che nel 1968 sparò a Andy Warhol nel tentativo di ucciderlo – e fotografie di soldati tedeschi della Prima Guerra Mondiale senza arti, ma anche cartoline di quelli rimasti integri in posa davanti a case in macerie che spedivano alle loro famiglie dal fronte. Le protesi a cui fanno accenno le tele di Richter le ritroviamo nell’Arsenale come uno dei temi della mostra seminale di Alemani il latte dei sogni, nella sezione “La seduzione del cyborg”.
La guerra e il barlume della risurrezione fanno da protagonista del ciclo di dipinti di Anselm Kiefer, alti ben 8 metri e 40 centimetri, che tappezzano la Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale. Nel contesto odierno la loro espansione immensa non può che evocare la magnitudine della distruzione di Mariupol perpetuata dalla Russia. L’arte di Kiefer ha sempre trattato gli effetti della guerra, ma mai le sue dimensioni erano sembrate necessarie come ora.
La guerra militare e la guerra contro i diritti delle donne e LBGT, il razzismo e la migrazione, il cambiamento climatico, la sostenibilità economica e l’umanizzazione della tecnologia e, infine, il nostro posto nel cosmo – queste sono le grandi sfide della nostra epoca e sono evocate per tutta la 59. Biennale. Gli artisti presenti che lavorano su scala più modesta dimostrano altrettanta sensibilità per le questioni pressanti, ma colpisce il gran numero di artisti che si sentono di rifletterle attraverso dimensioni importanti. Piuttosto che ostentare pomposità, o peggio, contribuire a un sistema oppressivo come si poteva pensare una volta, oggi il formato extra-large che si vede ovunque in questa Biennale esprime un evidente senso dell’urgenza dei problemi che affliggono l’umanità. Le grandi proporzioni sostengono progetti ambiziosi e servono a enfatizzare i pericoli estremi che ci assediano. Quindi rispecchiano lo sforzo monumentale che sarà necessario da parte di noi umani per rispondere ai problemi immani, se vogliamo essere all’altezza delle esigenze del nostro tempo.
‒ Daniela Salvioni
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