Musei e cultura nell’era trans-pandemica
Elisabetta Barisoni, responsabile della Galleria Internazionale d’Arte Moderna Ca’ Pesaro, a Venezia, riflette sul destino (e sulle speranze) dei musei a cavallo di una pandemia non ancora conclusa
Dopo due anni di pandemia, le istituzioni culturali guardavano al 2022 come un miraggio di (quasi) normalità. Correvamo troppo, dicevano i primi commentatori dell’emergenza sanitaria; non sono del tutto d’accordo, stavamo correndo sì, ma in una direzione che andava verso una pluralità di voci sul territorio nazionale. Con l’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani e il Direttivo di cui faccio parte lavoravamo alla definizione di una geografia culturale che non fosse concentrata solo sui grandi centri ma che potesse ricollocare l’eccellente lavoro fatto da molti nel panorama italiano.
“Gli artisti sono antenne pronte a captare i mutamenti e a leggere lo spirito del tempo o anticiparlo”.
Non concordo con chi intravedeva un clima da gioiosa Apocalisse nella società pre-pandemia, tuttavia molte cose sono cambiate negli ultimi due anni. In primo luogo ci siamo dovuti porre una domanda spesso data per scontata: siamo davvero un settore essenziale? In tempi brevi, le istituzioni italiane si sono riorganizzate per tenere viva la propria voce, attraverso iniziative digitali, il più possibile partecipative. Hanno imparato a comprendere meglio potenzialità e limiti di un mezzo fondamentale, senza rivalità con l’esperienza dal vivo, e hanno risposto all’appello, cogliendo ogni occasione di partecipare e rilanciare artisti, collezioni e attività, malgrado le interruzioni e la scarsa mobilità nazionale e internazionale.
È stato importante porsi la domanda sul proprio ruolo e sul proprio agire. La risposta, infine, mi è arrivata da una visitatrice di Ca’ Pesaro, nel giugno 2021: abbiamo sempre bisogno di bellezza e del museo come luogo dove piangere, ridere, stare in pace, pensare, ricordare. Qualcosa forse è cambiato anche nel pubblico, più attento e più concentrato sul patrimonio storico e culturale.
DAL VIRUS ALLA GUERRA
Nuove riflessioni sono entrate nelle istituzioni, a testimoniare che le rivoluzioni non sono sempre rotture ma talvolta registrano l’accelerazione di fenomeni già in atto. Penso al rapporto tra uomo e tecnologia, tra postmoderno e postumano, alla nostra sopravvivenza sulla Terra, infine al movimento #MeToo e alla cancel culture. Gli artisti sono antenne pronte a captare i mutamenti e a leggere lo spirito del tempo o anticiparlo; senza volerli relegare a ruolo di termoigrometri del presente o di inutili Cassandre, siamo in attesa di vedere quali opere sono nate e nasceranno da questo eccezionale periodo della Storia.
Certo non è facile leggere il presente; mentre stiamo lavorando alla ricostruzione di un’era trans-pandemica, un nuovo dramma è piombato sulle nostre vite. Il virus ci aveva resi simili e vicini come esseri umani vulnerabili. Lo scoppio della guerra in Ucraina ci ha riportato invece in una dimensione di restaurazione, di rassegnata adesione a odiosi ricorsi storici. Un dramma umanitario e geopolitico si sta consumando mentre a Venezia è iniziata la nuova stagione espositiva. Aspettavamo la Biennale Arte del 2022, ingenuamente paragonandola a quella del 1948, quando il Commissario Ponti scriveva: “L’arte invita tutti gli uomini, oltre le frontiere nazionali, oltre le barriere ideologiche, a un linguaggio che dovrebbe unirli in una umanistica intesa e universale famiglia contro ogni babelica disunione e disarmonia”. Possiamo solo continuare a lavorare perché questa primavera sia davvero una stagione di umanistica intesa e di rinascita.
‒ Elisabetta Barisoni
Versione aggiornata dell’articolo pubblicato su Grandi Mostre #28
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