Scrivere con il colore. Carla Accardi in mostra a Milano
La galleria Francesca Minini a Milano ospita la mostra che approfondisce il legame tra la pittura di Carla Accardi e la poesia, fondamentale per la sua intera produzione artistica
L’influenza delle ricerche di Carla Accardi (Trapani, 1924 ‒ Roma, 2014) va ben al di là dei confini di una singola corrente pittorica: i suoi lavori hanno infatti sollecitato l’attenzione di più generazioni di artisti e sparso suggestioni poi sviluppate in ambiti diversi, dall’Arte Povera ai Graffitisti, oltre ad aver segnato delle fondamentali tappe nel dibattito sul femminismo e sul riscatto culturale delle donne.
CARLA ACCARDI E LA POESIA
A partire dai tardi Anni Quaranta fino alla sua scomparsa, l’artista siciliana, romana di adozione, ha dato vita a un’instancabile ricerca sul segno-colore, e se è fuori discussione che le sue realizzazioni siano contraddistinte sempre e comunque da una forte carica poetica, la mostra da Francesca Minini, Scrivere con il colore, a cura di Lorenzo Benedetti, arriva a precisare il rapporto intercorrente tra i lavori dell’artista e il mondo della poesia in modo specifico e circostanziato. Ne risulta una storia di affinità elettive, in cui vediamo attuarsi una sorta di simbiosi tra l’ispirazione dell’artista e quella degli amici poeti che era solita frequentare. Si può parlare anzi di un rapporto osmotico, nel senso che era suo costume trascrivere in un quaderno, per trarne suggestioni e usarli addirittura come titoli di futuri lavori, i versi dei propri autori prediletti, i quali a loro volta non di rado le dedicavano strofe e la citavano nelle loro composizioni.
LA MOSTRA DI CARLA ACCARDI A MILANO
Se sulla parete di destra della prima sala, in due lavori dei primi Anni Ottanta, Parentesi n.1 e Parentesi n.3, i segni si accomodano in modo ancora meditato e compassato sulla trama grezza della tela emergendo da un moto di onde concentriche, sulla parete di fondo, in Soli impigliati in frange e lappole (1997), che riprende un verso delle IX Ecloghe di Andrea Zanzotto, ogni geroglifico fatto di barre, anelli e lunule variamente combinati presenta al suo interno un’ulteriore trama segnica, e un’esecuzione più immediata, come una pittografia in corsivo, il flusso di un’urgenza calligrafica più spontanea e incalzante. Lo stesso può dirsi di altre composizioni, come Luce crescente (1997): anche qui sagome ora arcuate ora dritte, che si incastrano in guisa di ingranaggi alternati di rette e curve, un mosaico di intersezioni che vibrano entro i loro bordi di rinnovate palpitazioni grafiche. Ma l’opera che più immediatamente tocca il confine che separa la pictura dalla poësis è il Fregio del 2004, che possiamo leggere come un codice di quindici tavole che si snodano sulla parete di sinistra senza soluzione di continuità, ciascuna delle quali corrisponde al verso di un componimento di Valentino Zeichen, col quale Accardi ebbe un rapporto di particolare complicità: un profilarsi di ideogrammi astratti tracciati con inchiostro nero in una cartografia intermittente di addensamenti e rarefazioni ‒ qualcosa tra coltura di microbi e minuteria meccanica ‒ che si sgranano e si interconnettono sulla superficie dei fogli. Anzi, delle pagine.
‒ Alberto Mugnaini
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