Sfocato ad arte
Quando la legge arriva a definire un’estetica: quella del “fuori fuoco”. La privacy e il copyright riempiono il mondo di oggetti appannati, con effetti divertenti e surreali. E da quando Google Street View è arrivata nei musei, la faccenda si è fatta ancora più interessante.
L’arrivo di Street View, il servizio di Google che permette di passeggiare virtualmente per il mondo grazie a milioni di fotografie panoramiche a 360 gradi, ha scatenato sin da subito (era il 2007) reazioni contrastanti. All’entusiasmo per le incredibili possibilità generate da questo vertiginoso e folle tentativo di mappatura integrale del mondo si sono affiancate legittime preoccupazioni sulla privacy di persone e luoghi, soggetti inconsapevoli dell’obiettivo a 11 lenti montato sul tetto delle Google Car, macchine impegnate a immortalare qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Un occhio imparziale, anonimo, neutro, che non giudica e non fa domande; non sceglie e non inquadra, ma semplicemente registra, catturando lo “stato delle cose” in un particolare pezzetto di spazio-tempo.
Inizialmente, nel tentativo di proteggere l’identità delle persone “accidentalmente” ritratte, Google ha oscurato volti e targhe automobilistiche, coprendo le parti incriminate con un effetto blur aggiunto automaticamente dal software. Poi c’è stato il caso Germania, Paese che, dopo aver negato per anni l’accesso alle automobili fotografe, nel 2010 ha finalmente capitolato, pretendendo però che fosse inserita la possibilità per i singoli cittadini di fare “opt out” dal servizio. Cosa significa? Che si poteva obbligare Google, con una semplice richiesta, a oscurare la propria casa ad esempio, cosa che moltissimi tedeschi hanno fatto, con il risultato di far sembrare alcune strade dei surreali viali fantasma, dove al posto degli edifici ci sono tanti parallelepipedi sfocati.
Se ne sono accorti Arne Huebner, Daniel Stäbler, Chris Hellerand e Theo Seeman, che al momento del lancio del servizio in Germania erano studenti della Merz Akademie di Stoccarda e hanno risposto con il progetto Ghost Town. I quattro, notando il gran numero di case che somigliano a “cabine per la doccia appannate” nella loro città, soprattutto nel quartiere posh di Killesberg (“abitato da gente ricca e famosa”), hanno iniziato a mapparle e a riprodurle in 3D su un’altra piattaforma di Google, Google Earth.
E se l’oscuramento di case, volti e targhe viene eseguito per motivi – più o meno giustificati – di privacy, nel caso delle opere d’arte la faccenda è un po’ diversa. Da quando Google ha introdotto la tecnologia di Street View anche nei musei (l’ultima release di Google Art Project vede la partecipazione di oltre 150 istituzioni da tutto il mondo) può infatti capitare di imbattersi, visitando virtualmente musei ed esposizioni, in sculture e quadri “appannati”, che interrompono la visuale come grandi buchi nel tessuto informativo. Fra l’altro, il contrasto è spiazzante: si passa da opere zoomabili fino alla profondità del singolo pixel a lattiginose macchie bianche che nascondono oggetti misteriosi. Oggetti che non ci è dato di vedere per motivi qui non di privacy, bensì di copyright.
Quando il proprietario dell’opera in questione decide di non rilasciare il permesso per la visualizzazione online, infatti, Google è costretta a rendere l’immagine illeggibile, con effetti comici e inquietanti. L’ha notato Greg Allen, critico d’arte e blogger americano con una passione per le mappe digitali (ricordiamo i suoi viaggi alla ricerca di lavori di Land Art visti dall’alto tramite Google Earth) che in un articolo ironicamente intitolato Le Blurmoiselles d’Avignon descrive la sua visita virtuale al MoMA tra un quadro in chiaro e uno opportunamente oscurato, e fa notare la somiglianza che questo effetto blur ha con tanta pittura astratta, quella di Gerhard Richter su tutte.
Ma questo parallelo non è venuto in mente soltanto ad Allen. L’artista inglese Phil Thompson, ad esempio, anche lui colpito dalle opere oscurate, ha deciso di metterle al centro del suo progetto Copyrights (iniziato nel 2011 e ancora in corso). Thompson ha ritagliato le immagini di numerosi quadri sfocati, le ha ingrandite e poi le ha spedite in Cina, dove alcuni pittori specializzati in riproduzioni e copie li hanno dipinti. I quadri che risultano sono pittura astratta a tutti gli effetti, con un’estetica in bilico tra Richter e Rothko. La sfocatura digitale imposta dalla legge diventa così concreta, tangibile. E terribilmente artsy.
Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #7
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