Il museo del futuro? Partecipativo. Brescia Musei inaugura le talk Open Doors
Nove incontri sono previsti nel progetto che secondo il suo curatore Pierluigi Sacco non vuole fermarsi a fare il punto su buone e cattive pratiche, ma anche creare una solida base tecnica con cui mettersi subito al lavoro
Il museo del futuro come agorà: questo l’intento che si prefiggono di raggiungere Fondazione Brescia Musei, la Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali e NEMO – Network of European Museum Organizations, insieme a un impressionante numero di istituzioni italiane ed europee, con il ciclo internazionale di talk Open Doors. Curato dal professor Pierluigi Sacco dell’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti, il progetto Open Doors andrà ad analizzare le strategie dei diversi musei a livello continentale in nove diversi incontri a partire dal 25 maggio 2022, dove all’Auditorium di Santa Giulia a Brescia converranno professionisti da grandi istituzioni culturali, assessorati, associazioni e centri universitari (ecco il palinsesto, cui si può partecipare di persona e online). Lavorando su otto diverse aree di analisi e formazione, gli incontri di lavoro permetteranno agli addetti ai lavori di osservare i casi di studio nazionali e internazionali, con i loro pro e contro, studiando la nuova missione delle istituzioni culturali per stilare delle policy dal carattere eminentemente pratico. “Siamo in una fase in cui c’è tanto da imparare: l’idea è che alla fine del ciclo chi avrà fatto il percorso avrà una mappa mentale delle opportunità e delle sfide della nuova e aggiuntiva vocazione del museo”, spiega il professor Sacco. L’obiettivo è quello di stimolare – non senza rischi e scommesse – ulteriori forme di sperimentazione che rendano il museo un vero interlocutore democratico e un servizio alla cittadinanza al pari delle scuole, degli asili e degli ospedali.
LA TRASFORMAZIONE DEL RUOLO DEL MUSEO SECONDO IL PROFESSOR SACCO
“Stiamo vedendo una trasformazione profonda di quella che è la missione del museo”, spiega Sacco, economista e autore di numerosi libri e articoli in materia di politiche culturali. “Questo avviene accanto alle sue missioni storiche: da una parte quella di “tempio della conoscenza” – il cui accesso (privilegiato) presenta i criteri ideali di conservazione e una conoscenza tipica del regime del mecenatismo, all’interno di una concezione di cultura in cui gli esperti illuminano i comuni mortali normando cosa è cultura e cosa no – e dall’altra quella di “macchina di intrattenimento” – una spettacolarizzazione permessa dall’avvento dell’industria culturale novecentesca, che pone sul museo una pressione crescente ad attrarre un pubblico possibilmente pagante”. Oggi, spiega il professore, stiamo entrando in una terza fase – accentuata dall’avvento dell’era digitale – in cui “le persone sono portate a esprimersi e produrre contenuti senza accettare passivamente la cultura, diventando attori e protagonisti dell’esperienza museale”. Non solo tempio e macchina, quindi, ma anche hub sociale: “Il museo è un luogo in cui le caratteristiche fondamentali della società e la creazione del valore sociale diventano patrimonio comune e oggetto di aspettativa, trasformandolo in un luogo in cui perseguire il benessere psicologico, affrontare sfide come la sostenibilità, far incontrare le differenze etnico-culturali, di orientamento sessuale, di livello educativo e reddito”, dice Sacco. “Siamo all’inizio di questo percorso”.
GLI INCONTRI DI OPEN DOORS
Il momento è particolarmente propizio, spiega il curatore: “C’è un repertorio di esperienze molto ricco in Italia. Abbiamo lavori notevoli, come quello della GAMEC che, in un territorio ad altissima diversità culturale, ha recepito la necessità di favorire l’integrazione etnica e socio-economica, creando un dialogo con i migranti e diventando l’istituzione di riferimento per questioni di primaria importanza legate al territorio. Se il museo sa interpretare davvero la sua nuova vocazione diventa un’istituzione sociale la cui utilità percepita è quella di un servizio a tutti gli effetti. Ma anche Farm Cultural Park a Favara, un’istituzione privata che interpreta in modo ideale la nuova vocazione del museo portando una città senza velleità culturali a spiccare a livello europeo, o ancora CasermArcheologica a Sansepolcro: il quadro italiano è estremamente ricco, pronto per essere studiato”. Questi studi si riveleranno utili non solo nel breve periodo, ma anche nell’ottica di una società postpandemica, in cui i musei potranno per esempio beneficiare dell’ampliamento dell’offerta digitale avvenuta durante il lockdown per aumentare il coinvolgimento dei visitatori al di là della tradizionale presenza fisica: “Questo sforzo non solo non diminuirà dopo le restrizioni ma diventerà la base di un modello sempre di più ibrido in cui la dimensione fisica e digitale si rafforzano a vicenda. Sarebbe ingenuo pensare alla dimensione digitale come alternativa: è giusto considerarla un supporto che mette le persone nelle condizioni di visitare uno spazio che, alla fine, non è familiare. Chi va al museo senza lauree e conoscenze pregresse fa fatica a orientarsi, e poter usufruire di materiali aggiuntivi senza timore reverenziale è utile soprattutto per la generazione dei giovani che considerano questa integrazione naturale. Così la visita fisica cambia completamente”. Questa serie di incontri, finalizzata alla produzione di risultati significativi in tempi realistici, potrebbe essere un ottimo punto di partenza: se in prima battuta gli interlocutori sono per gli addetti ai lavori, così non dovrà essere in futuro. “Non abbiamo immaginato per questo ciclo delle modalità dirette come gamification e uso dei social media: ora dobbiamo creare consapevolezza comune nelle istituzioni. Quello che ci auguriamo che accada – e sono ottimista dello straordinario lavoro della Fondazione Brescia Musei, che sta diventando una delle istituzioni più aperte e dinamiche d’Italia – è che questo ciclo di lavoro sia solo il punto di inizio per portare i sistemi museali a fare massa critica e fare iniziative specifiche per il pubblico più ampio, che smette così di essere pubblico e diventa comunità”.
– Giulia Giaume
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