Intervista a Edoardo Tresoldi sull’installazione “Monumento” alle Procuratie Vecchie di Venezia
Monumento parla di dialogo, convivialità, diplomazia. È la nuova installazione per Procuratie Vecchie di Edoardo Tresoldi. L’intervista
Edoardo Tresoldi ha realizzato una nuova installazione architettonica, Monumento, all’interno delle Procuratie Vecchie, il complesso da poco inaugurato a Venezia e del quale abbiamo parlato qui. Tresoldi è diventato celebre per le sue gigantesche installazioni in spazi aperti. Usa un reticolato in fil di ferro che permette alle sue architetture di vibrare e fondersi con il contesto naturale, l’atmosfera circostante entra nel corpo dell’opera creando un tutt’uno, un organismo simbiotico. L’artista parte spesso dall’idea di rudere, che va ad integrare idealmente con le sue costruzioni. Nato a Milano nel 1987, si trasferisce a Roma dopo gli studi artistici. Nella Capitale inizia a lavorare nel campo della scultura, della scenografia e del cinema; partendo dal contesto urbano della street art, affina e implementa tecnica e portata espressiva sino a creare una cifra stilistica inconfondibile. È dal 2013, con l’imponente intervento nello scavo archeologico della Basilica di Siponto, che il pubblico ha imparato a conoscerlo. L’installazione per l’edificio appena restaurato da David Chipperfield consiste in una colonna nel vano scala. Intorno al corpo cilindrico, ruota la chiocciola degli scalini. Sul capitello, l’artista ha inserito un tavolo e delle sedie, simboli di dialogo e convivialità. Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista.
Cosa significa per te aver inaugurato durante la Biennale?
Soffro da fruitore le grandi manifestazioni, abbraccio solitamente un processo lento di avvicinamento all’arte. Mi spaventava l’idea di inaugurare in mezzo ad una grande quantità di eventi. Alla fine, la polifonia di questa biennale ha avvolto come un fumo tutte le mostre sparse per la città, proponendo uno sguardo comune che cambia anche il modo di guardare Monumento. Ho compreso la possibilità di creare un’ulteriore ricchezza di significati. Inutile pensare ad un isolamento stagno dell’opera, viene iper-contaminata da ciò che la circonda.
Come per l’opera pubblica?
L’opera si incontra dopo un percorso in cui il fruitore ha negli occhi una serie di angoli umani, di persone e situazioni. Il significato cambia. Stavamo realizzando un monumento per la città ed è scoppiata una guerra che ha messo in discussione le fondamenta del pensiero occidentale. La possibilità
Hai partecipato anche ad altre grandi manifestazioni come Coachella, ti sei giostrato anche in situazioni diverse come per Arte Sella. Come ti approcci alle differenti commissioni?
Ho sempre cercato di accettare lavori in contesti che mi dessero le possibilità di sperimentare. I festival di musica mi davano l’opportunità di budget per grandi installazioni. Se sei giovane, fai scultura e non fai parte di una serie di ambienti hai dei freni. Idealmente non aveva la nobiltà di far parte di una manifestazione di arte visiva ma mi sono accorto nel tempo che mi piaceva.
Perché?
Per esempio, per Coachella, l’opera si esprime in un “contesto altro”. Il fruitore della Biennale arriva con una predisposizione, si pone in una direzione di lettura sulla base di un obiettivo preciso. Nello spazio pubblico capita il passante casuale; nel festival di musica una ragazza che è lì per ascoltare Beyonce si trova catapultata in un’installazione immersiva, la relazione è quindi pura, non ci codici interpretativi e sovrastrutture.
Com’è nato il passaggio dalla figura umana all’architettura?
Inizialmente utilizzavo le figure come elemento di trasposizione di una sensazione rispetto al paesaggio. Se creo una figura seduta che guarda verso il mare, il fruitore entra nella stessa condizione, c’è un incontro empatico, puoi ritrovarti anche tu seduto.
Come per un desiderio di emulazione o per i neuroni a specchio…
Ti fondi con la scultura e inizi ad esperire una serie di emozioni… da sempre mi sento attratto dall’architettura celebrativa, dalle chiese, luoghi dove mi piace riflettere. Ho avuto l’istinto di confrontarmi con quella tipologia di arte. Avevo voglia di mettere in relazione il fruitore e il paesaggio. All’inizio lo facevo tramite la figura umana, se il cielo fosse stato sereno mi sarei sentito allegro, se fosse stato coperto più turbato, sono una persona meteoropatica. Si crea una triangolazione tra scultura, paesaggio e fruitore. Con l’architettura viene meno un elemento.
Come ti sei sentito a passare dall’installazione ambientale, scatola aperta nel paesaggio, ad un’installazione per un interno?
Ho sentito molto questa differenza, al di là dell’ambientale è anche un discorso sociale: il monumento esterno ambisce a diventare parte di una comunità, che sia un paesino di 4000, più o meno abitanti. L’opera deve essere accettata o rifiutata dalla comunità, vive alcuni fenomeni. In una situazione indoor il monumento non è per uno spazio pubblico, si scardina dal suo ruolo di purezza e vitalità. Nello spazio pubblico cerco di fare lavoro di ascolto, sto preparando un’opera per Bari che inaugurerò tra due anni, ogni due mesi vado lì e cerco di diventare quella città. L’arte pubblica non è andare, abbozzare un progetto e realizzare.
Perché la colonna?
La fenomenologia che ruota intorno all’opera è la presenza dell’opera. L’unico dato che avevamo è che le persone salivano e scendevano. Come la colonna Traiana, nasce per portare in alto ciò che c’è di più prezioso. La colonna sorregge un pensiero.
Qual è il pensiero dietro?
La colonna è un piedistallo, solleva l’icona, un santo o un simbolo. Personalmente, volevo mettere al centro del discorso l’interazione con le persone. Sopra ho posizionato un tavolino per suggerire un momento di convivialità. Stiamo vivendo degli scossoni: prima la Polonia e la Bielorussa con un ammasso di profughi al confine, poi la guerra in Ucraina, le immagini di Kiev… Sta vacillando il concetto d’Europa e i valori fondamentali della società democratica. Ho pensato al tavolo intorno al quale sedevano Macron e Putin. In aggiunta, è uno “spazio abitabile”, potremmo sederci lì a bere un caffè.
Da dove origina l’idea di inserire gli elementi in vetro?
L’avevo utilizzato in un’installazione e Marsiglia. Ho lavorato il vetro dei parabrezza come un tessuto, lavorandolo a mano con delle cesoie e poi inserendolo in una sorta di processo di vestizione della colonna. Lembi di vetro scendono a ricciolo verso il basso. Il vetro dà inoltre luminosità, il vano è molto buio e austero. Il vetro riesce a catturare i riflessi di luce. Inoltre siamo in una città dove il vetro è un materiale nobile e dove le macchine non transitano.
È importante anche la trasparenza nelle tue opere…
È un monumento che nasconde se stesso, utilizzando ciò che è intorno a lui. Creo un contrasto tra l’identità monumentale-celebrativa-aulica e la trasparenza che rende l’installazione meno presente, intima, quasi sussurrante, rispecchia la mia timidezza.
-Giorgia Basili
https://www.edoardotresoldi.com
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