Roma 50-60. Un’avventura fra immagine e materia

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA MARCHETTI
Via Margutta 8, Roma, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

LU 16.30-19.30 ; MAR-SA 10.30-13.00 / 16.30-19.30

Vernissage
09/06/2022
Curatori
Silvia Pegoraro
Generi
arte contemporanea, collettiva

Si tratta di un percorso attraverso opere realizzate negli anni ’50 e ’60 da 25 artisti attivi a Roma in quei due intensissimi decenni della vita socio-culturale italiana, artisti di diverse generazioni, rappresentativi di diverse tendenze stilistiche e tipologie di lavoro.

Comunicato stampa

A partire da giovedì 9 giugno 2022 la Galleria Marchetti di Roma (Via Margutta 8) – che in questo 2022 festeggia 25 anni di attività - ospiterà la mostra ROMA 50-60 – Un’avventura fra immagine e materia (a cura di S. Pegoraro) che resterà allestita fino al 28 luglio. Si tratta di un percorso attraverso opere realizzate negli anni ’50 e ’60 da 25 artisti attivi a Roma in quei due intensissimi decenni della vita socio-culturale italiana, artisti di diverse generazioni, rappresentativi di diverse tendenze stilistiche e tipologie di lavoro: gli sviluppi della Scuola Romana (Giovanni Omiccioli, Carlo Quaglia, Antonietta Raphaël, Giovanni Stradone, Alberto Ziveri); gli sviluppi dell’astrattismo di Forma 1, e altre esperienze di ricerca sull’astrazione (Carla Accardi, Luigi Boille, Piero Dorazio, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella, Piero Sadun, Antonio Sanfilippo, Giulio Turcato); il realismo, tra espressionismo e impegno sociale (Ugo Attardi, Giovanni Checchi, Mino Maccari, Marcello Muccini, Renzo Vespignani); la versione romana della Pop Art (Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Renato Mambor, Mario Schifano, Cesare Tacchi). Catalogo in galleria, Edizioni Grafiche Turato (Padova)

Nella storia dell’arte del XX secolo a Roma, i due decenni ’50 e ’60 danno l’impressione di una fibrillazione creativa generalizzata, in cui il processo della ricerca artistica può essere percepito in tutta la sua drammatica vitalità.
Negli anni Cinquanta l’Italia, pur rimanendo legata a valori, abitudini e aspirazioni antiche,
subisce una profonda metamorfosi ed è teatro di un completo stravolgimento dei modi di vivere tradizionali, che alimenta anche la trasformazione dei linguaggi delle arti, in una dimensione in cui il “nuovo panorama iconografico” che ci circonda, fatto di segnaletica stradale e cartellonistica pubblicitaria, è “ ‘sublimato’ ad opera d’arte” (Gillo Dorfles). Nel corso degli anni Sessanta, la naturale capacità dell’arte di precorrere, riflettere e rappresentare la realtà, si rafforza e si fa “politica”, nell’accezione più ampia del termine, affrontando anche il problema di carattere “identitario” riguardante la definizione della modernità italiana. Questa ricerca si sviluppa attraverso una nuova declinazione di gesto, materia, oggetto, esperienza e spazio artistici, mentre l’immaginario visivo si amplia accogliendo il cinema, la fotografia, la pubblicità, la grafica.
Alcune gallerie - in particolare La Tartaruga di Plinio De Martiis - sono luoghi determinanti per il rinnovamento artistico postbellico in Italia, che, tra la metà degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta, ha la sua punta più avanzata proprio a Roma. Qui il confronto, anche conflittualmente dialettico, tra gli artisti, avviene in buona parte proprio negli spazi dei questa galleria, diventata ben presto uno dei punti cruciali dell’arte nella “dolce vita” romana. Inizialmente scenario desolato quanto affascinante per il cinema neorealista, Roma diventa dunque il palcoscenico dell’intensa attività di artisti internazionali. Uno dei principali luoghi di scambio internazionale è la Rome-New York Art Foundation che ospita, tra il 1957 e il 1961, nove mostre fondamentali per la diffusione dell’arte americana in Europa. In effetti in Italia, in particolare in ambito romano, diventa sempre più evidente il declino dell’influenza dell’arte francese e, di pari passo, l’incrementarsi di quella della pittura americana. D’altra parte, come scriveva Alberto Arbasino: “Gli stimoli venuti di fuori (…) hanno provocato sempre delle esperienze stimolanti. Ma passate le cotte, i nostri pittori hanno continuato a esprimersi nel loro peculiare linguaggio che risente del fondo comune della nostra cultura.” Oltre alla forte esigenza di un dialogo con le voci artistiche internazionali, in particolare statunitensi, è infatti altrettanto evidente la tendenza degli artisti italiani a mantenere i contatti con la tradizione, a fare riferimento all’esempio dei grandi maestri del nostro passato storico, tendenza che non verrà meno neanche nei momenti di più accesa contestazione avanguardista.
Negli anni ’50 e ’60 sono ancora pienamente operativi a Roma alcuni maestri rappresentativi della Scuola Romana affermatisi già negli anni ‘30-’40, come Raphäel, Omiccioli, Quaglia, Stradone, Ziveri: artisti molto diversi tra loro, ma accomunati da un’espressione iconica che svela un’adesione profonda al reale nella sua corporeità quotidiana, nella sua trama di sensazioni ed esperienze individuali, nella sua suggestione lirica o tragica ma lontana tanto dal realismo naturalistico quanto da istanze ideologiche. Fortemente ideologizzata è invece la pittura di “impegno sociale” che accumuna a Roma, intorno alla metà degli anni ‘50, artisti di provenienze e percorsi diversi, tra cui Renzo Vespignani e Ugo Attardi, uniti poi, all’inizio degli anni ’60, dall’esperienza del movimento “Il Pro e il contro”. Ma assai vitale, in quegli anni, è ancora il “realismo grottesco”, ironico ed espressionistico, di una figura fortemente individualista e, in certo qual modo, “anarchica”, come quella di Mino Maccari.
Sul versante opposto, quello della ricerca sull’astrazione, continuano a muoversi gli esponenti di quello che era stato il gruppo di Forma 1 (come Accardi, Dorazio, Perilli, Sanfilippo, Turcato). Perilli sottolineava come, a differenza che per l’astrattismo di marca geometrico-essenzialista, per Forma 1 era fondamentale il legame della forma con la “realtà” e con l’“ambiente”, e chiamava dunque in causa la centralità del soggetto che la percepisce: forma come “sintesi dell’uomo” nella sua esistenza individuale, sembra il concetto cardine attorno al quale ruotano, nei loro diversi e personali sviluppi, le poetiche aniconiche di tutti gli esponenti del gruppo. In ogni fase dello sviluppo della loro ricerca, resta notevole questa capacità di conciliare la prospettiva formalista e “purovisibilista” con una comprensione della forma che non esclude il punto di vista della scienza e della psicologia. Perilli è poi protagonista, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, insieme a un altro grande pittore partito dalla ricerca astratto-informale, Gastone Novelli, di un’esperienza di ricerca avanguardista (vicina alle avanguardie letterarie del “Gruppo 63”) volta alla conquista di una “nuova figurazione”. Quella stessa “nuova figurazione” alla quale attingerà all’inizio degli anni ‘60 Mimmo Rotella, che negli anni ’50 realizza ancora splendidi Décollages astratto-informali dalla forte suggestione pittorica, che si manterrà anche quando il lavoro sui manifesti si sposterà verso il “figurativo”, consentendo la riconoscibilità dell’immagine in essi riprodotta. Nell’ambito della ricerca sull’astrazione vengono prese in esame alcune affascinanti figure di artisti più “isolati”: come Luigi Boille, trasferitosi a Roma nella seconda metà degli anni ’60, dopo aver vissuto molti anni a Parigi, operativo nell’ambito dell’Informel di Michel Tapié; e Piero Sadun, artista riflessivo e sempre lontano dai clamori delle avanguardie, che giunge all’aniconismo solo all’inizio degli anni ’60, dopo un lungo percorso dedicato alla figurazione.
Gli anni Sessanta, esauritasi “quella specie di cosmologia arida, appena intravertibile da filiture e marezzature, da screpoli e coaguli, tutta una metafisica sensitiva e ritmi generalizzati della disperazione” - come Emilio Villa descriveva in un testo del 1960 gli anni ’50 in pittura - tendono a sostituire a quei grumi di soggettività gestuale ed esistenziale l’apoteosi della figura e dell’oggetto. A Roma, gli artisti coinvolti in questo processo fanno parte, a vario titolo, della “Scuola di Piazza del Popolo”, le cui vicende sono strettamente collegate a quelle della Pop Art. Il gusto italiano della Pop Art a Roma si manifesta prima di tutto in una forte istanza di intervento artigianale/manuale (lontana dalle tecniche prettamente industriali e seriali utilizzate dal Pop americano) e nel recupero dell’iconografia storico-artistica e delle sue “icone”: dal Leonardo di Ceroli e Schifano alle rivisitazioni metafisiche di Festa, all’accostamento di simboli antichi e icone del contemporaneo in Angeli e Tacchi. L’uso che gli esponenti della Scuola di Piazza del Popolo fanno dell’arte e dell’iconografia antica richiama in qualche modo il tema caro a Walter Benjamin dell’essere rivisitati dal passato: ciò che è stato non è in relazione lineare e deterministica col presente, ma è restituito nell’esperienza di un presente “pieno di attualità”.