Quali sono gli obblighi dell’arte contemporanea?
In un momento in cui i meccanismi dell’arte sono sempre più simili a quelli della pubblicità, è bene ricordare che il primo rapporto innescato da un’opera è quello con lo spettatore. E che va salvaguardato
Ripartire: (ri)costruire un nuovo immaginario di riferimento; un nuovo orizzonte.
Il tema del “controllo” è centrale: il Controllo come algoritmo, come prevedibilità di ogni scelta e come anticipazione dei gusti, come conferma di gusti già consolidati. La funzione “Altri contenuti simili” non è infatti attiva solo nelle interfacce delle piattaforme digitali, per sceglierci – o per farci scegliere… ‒ serie tv e film, ma senza bisogno che ci sia un pulsantino è rintracciabile e perfettamente operante anche in altri contesti culturali. Per esempio, nel nostro caro vecchio sistema dell’arte contemporanea.
Il controllo si è insediato e innestato nel circuito stesso dell’opera d’arte: l’artista di oggi spesso infatti pretende di gestire la nostra esperienza di spettatori, di dirci in buona sostanza che cos’è quest’opera, che cosa significa, come dobbiamo interpretarla, cioè che tipo di esperienza dobbiamo attraversare e quindi che tipo di risultato dobbiamo ottenere, che performatività dobbiamo persino mostrare alla fine del percorso. Peccato che – come ha detto Stefano Chiodi durante la presentazione de L’arte rotta al MAXXI ‒ “nell’arte, le immagini la sanno sempre più lunga dei loro autori, così come dei loro spettatori”.
ARTE E PUBBLICITÀ
L’arte e l’opera d’arte sono un mistero, e l’artista – qualunque artista ‒ non solo non è in grado di imporre (a meno che, ovvio, non sia un cattivo artista…) l’interpretazione, ma non sa realmente ciò che sta accadendo quando realizza l’opera, non sa descriverlo, non sa raccontarlo – e quindi ovviamente non sa dire che cosa significa. Quindi la famigerata domanda sul ‘senso’ che regolarmente si affaccia non ha, letteralmente, alcun senso.
Questa dinamica tra controllo da una parte e imprevedibilità/imprevisto dall’altra rimanda da vicino a un processo che David Foster Wallace aveva intravisto, ai suoi albori, nel corso della sua famosa crociera sulla meganave extralusso del 1996, e raccontato nel reportage narrativo commissionato dalla rivista Harper’s Una cosa divertente che non farò mai più (pubblicato in volume nel 1997). Un processo che oggi è definitivamente esploso, percolando negli anni all’interno di ogni singolo aspetto dell’esistenza quotidiana.
A proposito di un articolo elogiativo sulla crociera pubblicato dallo scrittore Frank Conroy sulla brochure della nave Zenith (Nadir nel libro), Wallace lo riconosce come messaggio pubblicitario camuffato da ‘opera’ (un oggetto subdolo quindi che aggira le difese), e illustra una distinzione estremamente significativa tra pubblicità e opera d’arte basata sulla tutela degli interessi e del ‘beneficio’ dei lettori (/spettatori), cioè noi: “In altre parole, la compagnia Celebrity presenta le pagine di Conroy come se fossero un vero e proprio articolo e non come una pubblicità. È proprio una scorrettezza. E il motivo è questo: che vengano rispettati o meno, gli obblighi fondamentali di un articolo sono quelli contratti con i lettori. Il lettore, anche se a livello inconscio, lo sa e tende a rapportarsi a un articolo con un livello di apertura e credulità abbastanza alto. Ma un annuncio pubblicitario è una cosa completamente diversa. Gli annunci pubblicitari hanno un determinato obbligo formale e legale di veridicità, ma questi obblighi sono abbastanza ampi da consentire una buona dose di manovre retoriche, più che sufficienti a adempiere all’obbligo fondamentale della pubblicità, che è quello di servire gli interessi economici di chi la finanzia. Qualsiasi tentativo una pubblicità compia di interessare o attrarre chi legge, non è volto, in ultima analisi, al beneficio del lettore” (D. F. Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, minimum fax 2017, p. 57).
Che frase bella e utile, “gli obblighi fondamentali di un articolo sono quelli contratti con i lettori”: si può anche parafrasare – direi di sì – in “gli obblighi fondamentali di un’opera d’arte sono quelli contratti con gli spettatori/fruitori”.
ARTE E SPETTATORI
E quali sono quindi gli interessi che sta facendo l’opera di questi tempi, se non sono quelli dei suoi spettatori? Di chi sono questi interessi, a che sfera appartengono? E se l’opera si è pericolosamente avvicinata a un annuncio o a un contenuto pubblicitario, che cosa sta pubblicizzando (oltre a se stessa e al suo autore, ovviamente)?
Wallace concludeva così il suo ragionamento: “Un annuncio pubblicitario che fa finta di essere arte è – quando va bene – come quando qualcuno vi sorride cordialmente solo perché vuole qualcosa da voi. Questo è già disonesto, ma il peggio è l’effetto finale che tale disonestà suscita in noi: poiché esso offre un perfetto facsimile o simulacro di buona fede senza il vero spirito della buona fede, produce confusione nella nostra mente e alla fine la nostra guardia si alza anche di fronte ai sorrisi sinceri e all’arte vera e alla buona fede. Ci fa sentire confusi, soli, impotenti, arrabbiati e impauriti. Ci fa sentire disperati” (ivi, p. 58).
‒ Christian Caliandro
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