Musei e restituzioni. Il punto di vista del Mudec di Milano
Nella nostra ricognizione sul tema, attualissimo, delle restituzioni, non poteva mancare la voce dei musei. Abbiamo dato spazio al Museo delle Culture di Milano
Come ci si comporta praticamente alla richiesta di restituzione di opere? Come si preparano i musei italiani? Come affrontano a monte la questione postcoloniale? Ne abbiamo parlato con Carolina Orsini, conservatore delle Raccolte Archeologiche e Etnografiche del Museo delle Culture di Milano.
Qual è la vostra politica in merito alla questione delle restituzioni?
La questione delle restituzioni è molto complessa e ogni caso vale a sé. Non abbiamo ricevuto delle richieste formali da parte di governi internazionali a oggi, ma da tempo il museo sta lavorando su tre diversi fronti: 1. trasparenza delle collezioni e tracciabilità della provenienza degli oggetti per chiarire eventuali situazioni scorrette di acquisizioni avvenute nel passato; 2. disamina dello status quo relativamente alle procedure di eventuali alienazioni del patrimonio (per legge il patrimonio dello Stato è inalienabile e quindi non cedibile se non a seguito di provvedimenti specifici); 3. redazione di un documento sulla politica dell’acquisizione o della ricezione di donazioni che tenga conto delle più attuali normative in materia di circolazione dei beni non europei nonché dei criteri etici stabiliti da ICOM, esaminando anche i vademecum di due diligence realizzati all’estero, per esempio le Guidelines for German Museums. Care of Collections from Colonial Contexts, la cui terza edizione è stata pubblicata nel 2021.
Come gestite la vostra identità museale, che inevitabilmente affonda le radici in un passato meno sensibile a certe questioni, a fronte della necessità di “decolonizzare il museo”?
Il museo da molto tempo si è dotato di un ufficio apposito, l’ufficio Reti e Cooperazione Culturale, che ha come finalità la promozione della partecipazione alla vita del museo da parte delle comunità diasporiche, anche in termini di scelte museografiche e museologiche. Ad esempio, la nuova esposizione permanente è stata oggetto di un processo partecipativo che ha visto il coinvolgimento di alcuni cittadini che hanno contribuito con la loro visione nel come trattare alcuni argomenti e alcuni materiali che riguardano il passato coloniale. Abbiamo inoltre dedicato grandi energie nel proporre al pubblico una narrazione degli eventi storici connessi ai nostri oggetti il più possibile multi-sfaccettata e trasparente rispetto alle dinamiche di potere asimmetrico che queste storie rivelano, anche utilizzando opportuni strumenti linguistici.
Ci sono modelli a cui fate riferimento per trarre ispirazione? Penso ad esempio al progetto molto articolato del Museo Rietberg di Zurigo.
Secondo noi uno dei progetti più interessanti che sono stati portati avanti negli ultimi tempi è stato quello promosso dal Goethe Institute Tutto passa tranne il passato perché ha visto il coinvolgimento di diversi musei europei e africani e un confronto su lunga durata rispetto ai temi quali le restituzioni, le riparazioni e le collaborazioni transnazionali.
A livello educational, avete in programma attività che affrontano questi nodi?
Le attività educational del museo sono esternalizzate. Tuttavia, sempre attraverso l’ufficio Reti sopra menzionato, facciamo piccoli progetti di formazione, specialmente rivolti ai formatori e agli insegnanti.
Avete programmi di dialogo aperti con realtà museali di Paesi di cui conservate manufatti? Non intendo solo per quanto riguarda il tema delle restituzioni, ma di dialogo su un più ampio raggio.
Certamente, da molti anni il museo ha una missione archeologica e antropologica in America Latina che segue le orme di uno dei fondatori del museo, ovvero l’esploratore milanese Antonio Raimondi. Raimondi è una figura molto positiva di esploratore che è diventato un padre della patria in Perù, dove è emigrato per motivi politici a metà dell’Ottocento. La missione archeologica è nata per contestualizzare meglio i lavori di Raimondi e gli oggetti peruviani del museo. Abbiamo svolto moltissime azioni concrete per la promozione e la difesa del patrimonio archeologico in Perù, oltre a collaborare con i musei locali per effettuare formazione. La missione ha anche promosso un programma di lavoro femminile, finalizzato alla ripresa della produzione di ceramica e tessuti tradizionali per rivitalizzare una tradizione importantissima ma anche promuovere l’indipendenza economica alle donne.
Sul tema sono usciti libri importanti, dal celeberrimo rapporto Sarr-Savoy al recente Decolonizzare il museo di Giulia Grechi. Quale testo consiglieresti ai nostri lettori, anche non strettamente e tecnicamente legato alla questione?
Il rapporto Sarr-Savoy, pur non essendo esattamente un testo divulgativo, è sicuramente una pietra miliare nella letteratura sulle restituzioni. La stessa Savoy ha collaborato a un altro volume interessante, che mostra anche il ruolo del mercato nella circolazione dei beni: Acquiring Cultures: Histories of World Art on Western Markets. Consiglio di leggerlo a chi desidera occuparsi di storia della cultura materiale. Chi invece vuole avvicinarsi all’argomento provenance in maniera meno tecnica può cimentarsi con Un’eredità di avorio e ambra di Edmund De Waal.
Un’ultima domanda che si lega alla stringente e drammatica attualità. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto riemergere in maniera palese l’utilizzo strumentale della cultura nei conflitti. Mi riferisco in particolare alle richieste incrociate di restituzioni dei prestiti museali, poi fortunatamente “smussate”. Evidentemente si tratta di “restituzioni” molto diverse rispetto a quelle che deve affrontare ad esempio un “museo etnografico”, ma quale riflessione può generare questa seconda accezione?
L’uso politico del patrimonio è una questione antica che risale fino ai tempi della preistoria: nelle situazioni di conflitto o di asimmetria del potere, il patrimonio viene sempre usato in questo senso. Ma è sempre stato usato anche a fini diplomatici nel senso positivo del termine. D’altro canto, se il patrimonio non avesse un forte valore identitario, non sarebbe al centro di questioni tanto cruciali. Credo che non si smetterà mai di reclamare, distruggere ma anche “scambiare” patrimonio: fa parte delle interazioni (di incontro ma anche di scontro) tra le persone. Sta a noi che questi scambi diventino sempre più collaborativi e alla pari.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65-66
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