La memoria di Pompei negli scatti di Luigi Spina
La fotografia di Luigi Spina si mette al servizio di una storia antica, quella dei manufatti conservati nei depositi del MANN di Napoli provenienti dagli scavi archeologici di Ercolano e Pompei
La mostra di Luigi Spina (Santa Maria Capua Vetere, 1966) nelle sale della Villa dei Papiri al MANN di Napoli presenta cinquanta fotografie in bianco e nero dedicate ai manufatti conservati nei depositi del museo partenopeo, le cosiddette “celle di Sing Sing”.
Si tratta di oggetti di vario genere, dai vasi alle anfore ai pezzi di pane bruciato. Le immagini di Spina evocano un attimo particolare, la fine di un mondo, la catastrofe. Ci troviamo di fronte a un grande calco collettivo, che oggi, a duemila anni di distanza, viene raccontato da un linguaggio, come la fotografia analogica, dotato di una valenza indicale.
LA POETICA DI LUIGI SPINA
La mostra è accompagnata da un libro di grande accuratezza che contiene i testi di Paolo Giulierini, direttore del MANN, João Vilela Geraldo, Davide Vargas e dello stesso Luigi Spina.
Il volume è pubblicato dalla casa editrice 5 Continents, con cui il fotografo ha instaurato una collaborazione decennale, che ha portato alla realizzazione di volumi come Diario mitico, ispirato ai capolavori della collezione Farnese, in cui l’arte diventa il punto di partenza per una riflessione sull’esistenza, proprio come nella mostra del MANN.
Le ricerche di Spina, nel corso degli anni, sono sempre partite da un progetto di libro, sua grande passione. A oggi ne ha ventidue all’attivo e le sue opere sono pubblicate in un centinaio di volumi di ambito internazionale.
IL FUTURO DI SING SING
Siamo al cospetto di una mostra e di un libro di grande raffinatezza in cui è tuttavia evidente il percorso di studio e di successiva valorizzazione del patrimonio, compiuti dalla direzione dello staff scientifico del museo. La mostra, in cui il tempo è sospeso, offre un’interessante visione di un patrimonio archeologico di straordinaria portata e prelude a una nuova politica di accessibilità pubblica dei depositi museali. Il futuro di Sing Sing è segnato, per questo si è voluto l’intervento di Spina. Entro breve, infatti, i pezzi ritorneranno nelle rinnovate sezioni vesuviane del museo.
SING SING: LA STORIA DEL DEPOSITO
Curioso nome Sing Sing per il deposito di un museo archeologico fra i più importanti al mondo. A tutti noi fa venire in mente il penitenziario, a cinquanta chilometri da New York, dove in Colazione da Tiffany Audrey Hepburn andava a portare notizie a Sally Tomato, il pericoloso gangster che là era rinchiuso a vita. Il carcere di massima sicurezza, in attività dal 1826, fu costruito nel villaggio allora chiamato Sing Sing e poi ribattezzato Ossining.
Il deposito si trova nei sottotetti del MANN. L’idea di chiamarlo così è venuta, negli Anni Settanta, all’archeologo Giuseppe Maggi: si tratta, infatti, di un lunghissimo corridoio popolato da quindici celle.
Come spiega il direttore del MANN, Paolo Giulierini, fra le pagine del volume che accompagna la mostra: “Sing Sing è l’esito finale di una sciagurata scelta avviata a partire dagli Anni Sessanta che previde, sulla scorta delle nuove idee di riordino per contesti, lo smontaggio sistematico di buona parte di un museo nato essenzialmente da collezioni e reperti scavati senza precisi riferimenti. Se a questo processo si aggiunge l’insensata decisione, del 1958, di separare la collezione pittorica moderna per trasferirla alla Reggia di Capodimonte, che museo non era, si comprendono bene le ragioni del perché Napoli non può ancora a pieno titolo concorrere, come potrebbe tranquillamente fare, con altri colossi nazionali e internazionali che non hanno subito tale destino”.
Sing Sing ospita gli oggetti quotidiani di Pompei ed Ercolano sopravvissuti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Non si tratta di oggetti di seconda scelta, quanto piuttosto di oggetti dismessi, che racchiudono storie di vita interrotte e rese eterne dalla catastrofe naturale.
PAROLA A LUIGI SPINA
Sei uno dei massimi fotografi di archeologia in Italia. Come sei approdato a questo mondo?
Sono di Santa Maria Capua Vetere, un luogo che ha una storia archeologica importante e ho sempre vissuto tra le rovine. Sin da ragazzo mi sono posto il problema della mia identità e di quella degli altri, così accade quando ci si confronta con il patrimonio. Mi interessa indagare gli individui soprattutto da un punto di vista antropologico. In realtà è l’uomo a essere al centro della mia ricerca. La mostra raccoglie otto anni di lavoro, ho fotografato oggetti che provengono in particolare da scavi ercolanesi e pompeiani. Sono oggetti di natura personale, come se fossi entrato nelle case di queste persone.
Si tratta di un lavoro sul tempo.
In tutte le mie ricerche affronto un problema temporale, è anche questo un modo di confrontarsi con la morte.
Occuparsi di passato implica spesso una dimensione tragica.
Sing Sing è un luogo senza tempo, in cui sono raccolti oggetti che un tempo erano di qualcuno e che ora assumono la veste di oggetto assoluto. Qui ci troviamo di fronte alle tracce di quanto è rimasto in seguito a un olocausto naturale.
Con questo lavoro sottolineo la coltre grigia del vulcano che aleggia sugli oggetti. Molti di essi non hanno più il colore della vita, sono ingrigiti. Quegli oggetti erano parte di un corpo sociale che non esiste più e che non si può più ricostruire. Inoltre volevo uscire dallo stereotipo del bell’oggetto, dell’opera d’arte, così ho fotografato molto di più gli oggetti di uso comune.
Il progetto giunge al culmine con Anastilosi, che è collocata nella parte centrale del volume pubblicato da 5 Continents Editions. Per gli archeologi è il momento ricostruttivo, ottenuto mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture.
Le tue fotografie sono di grande qualità. Utilizzi il banco ottico?
Per questo lavoro sì, anche se, nel corso degli anni, non ho utilizzato solo questo strumento.
Nel tuo testo, che accompagna il libro, parli di “senso civico del sacro”. Nell’accezione spirituale del termine?
Certo. Sono convinto che ci debba essere una sorta di sacralità civile, un fondamento di base da cui tutti dovremmo attingere. È un recinto, un vivaio delle coscienze. È un punto su cui rifletto sempre e cerco di farlo attraverso la fotografia, il linguaggio che mi appartiene.
Hai realizzato il tuo primo libro con Electa Napoli quando avevi circa trent’anni, mi hai raccontato che ne inviasti una copia a Federico Zeri. Come andò?
Dopo una quindicina di giorni dalla ricezione del libro mi scrisse, poi ci sentimmo al telefono. Mi disse che, a suo parere, il libro era bellissimo, e mi chiese cosa avrebbe potuto fare per aiutarmi. Mi consigliò di continuare a fare foto. Nel 1998, otto giorni prima della sua morte, mi scrisse una lettera, che conservo gelosamente, dove si scusava di non potere venire alla mia mostra, a causa di un forte dolore alle ossa. Chiudeva la lettera con: “Le auguro il successo che le sue fotografie meritano”. È stato un importante monito per andare avanti. Sin dall’inizio ho sempre lavorato per progetti, non sono un fotografo in senso stretto.
Come hai studiato l’allestimento della mostra?
La mostra fotografica è allestita presso la Collezione della Villa dei Papiri. L’intento mio e del direttore, Paolo Giulierini, è stato quello di far dialogare le immagini di Sing Sing con i bronzi ercolanesi simbolo della catastrofica eruzione del Vesuvio.
‒ Angela Madesani
ha collaborato Maria Celeste Sgrò
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #28
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