Tra Arte e Esperienza, Capitolo III – “Minimalismo, Arte Concettuale, Arte Povera, Body Art”
Fine anni Sessanta, un momento di grandi turbolenze internazionali, tra tensioni sociali, conflitti bellici, il boom economico, la protesta giovanile e la contestazione studentesca. Uno sguardo allargato dagli esordi del Minimalismo e dell'arte Concettuale, passando per l'Arte Povera e arrivando alla Body Art
“Tra Arte e Esperienza” – 2009
cap III – ‘Minimalismo, Arte Concettuale, Arte Povera, Body Art’, 29′
autore: Jade Vlietstra
regia: Tayu Vlietstra
creative: FF fusionefilm
produzione: Rai Educational – ‘Magazzini Einstein’
Una collezione di piccoli cammei storico-critici, per ripercorrere, tra foto d’archivio, filmati d’epoca, interviste, testimonianze, racconti, la parabola dell’arte contemporanea, dal dopoguerra fino agli anni Novanta. Artisti, opere, movimenti, correnti, teorie estetiche: il best of di cinquant’anni di storia dell’arte, prima sugli schermi Rai, adesso su Artribune Television.
Fine anni Sessanta, un momento di grandi turbolenze internazionali, tra tensioni sociali, conflitti bellici, il boom economico, la protesta giovanile e la contestazione studentesca. L’arte perde la sua fisicità, fino a diventare idea, concetto, speculazione: arte che ragione su ste stessa, arte come filosofia dell’arte, arte come linguaggio, parola, scrittura. Arte in forma di concetto puro, nel nome e in memoria di Marcel Duchamp: vera stella polare di questi nuovi artisti-pensatori. A introdurre tale straordinaria rivoluzione intellettuale, tutta volta alla smaterializzazione dell’oggetto in favore dell’idea, è Germano Celant. Tra i molti protagonisti di questo terremoto estetico ci sono gli americani Joseph Kosuth e Sol Lewitt.
“L’arte vive attraverso l’influenza che esercita su altra arte e non quale residuato fisico delle idee di un artista”: sono parole di Kosuth, immortalate in un filato d’epoca. E ancora: “L’unica cosa a cui l’arte aspira è l’arte stessa. Arte è la definizione di arte”. Ed ecco il gioco della tautologia: l’ingrato e sempre fallace compito di definire l’arte ricade nell’autistico riferimento al proprio essere/esser-ci. L’oggetto presenta sé stesso, l’arte dice se stessa, estroflettendo il proprio nucleo vitale. Non c’è più spazio, con il concettuale, per i materiali tradizionali, per la narrazione, per il simbolo, per l’espressione, per l’io e il super io.
Dice Sol Lewit: “L’esecuzione è una faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina che crea l’arte. Questo elimina, per quanto è possibile, l’arbitrarietà, il capriccio, la soggettività”.
Da qui al minimalismo il passo è breve. Donald Judd, Carl Andre, Robert Morris, Dan Flavin sono gli scultori dell’essenzialità, del rigore geometrico, della serialità e della scansione modulare: bandita ogni forma di rappresentazione e ogni materiale nobile. Anche in questo caso, l’arte diventa un viaggio incontro alle proprie strutture primarie, al proprio nucleo fondante: forma, spazio, linea, superficie. La ripetizione, la monotonia aulica di elementi primigenei e puri, la misurazione ideale dell’ambiente: scultura come indagine essenziale dell’esistenza.
La Land Art porta tutto questo dentro il paesaggio, dando vita a opere su vasta scala che agiscono sul territorio in maniera spesso spettacolare: il rapporto con lo spazio deputato del museo e della galleria è definitivamente spezzato. Robert Smithson dice: “La mente e la terra sono in costante stato di erosione, tutto il corpo è trascinato nei sedimenti cerebrali dove particelle e frammenti si fanno riconoscere come coscienza solida. Un mondo scolorito e fratturato circonda l’artista. Organizzare questo caos di corrosione, secondo modelli, strutture e suddivisioni, è un processo estetico che non è stato quasi mai preso in considerazione”. Organizzare il caos, contenere l’entropia, riscrivere, entro strutture leggibili, decodificabili e attraversabili, l’infinito trasmutare della Natura.
Christo e Jaen Claude, poeti dell’impacchettamento monumentale, precisano: “Il nostro lavoro non è legato a nascondere tutto, ma è legato al territorio. E il territorio è la cosa più importante dello spazio”.
Spunta fuori la figura memorabile di Joseph Beuys, sacerdote dell’arte concettuale e grande sciamano, creatore si simboli nuovi. Di lui dice Lea Vergine: “Beuys è uno degli ultimi artisti politici, nel senso di teorizzazione della politica, tra romanticismo e sturm und drung”.
Con Celant, Fabio Sargentini (L’Attico, Roma) e Francesco Masnata (La Bertesca, Genova) si torna in Italia, sul filo di memorie straordinarie, legate al capitolo dell’Arte Povera. La sensualità tutta italiana si distingue dall’algido concettualismo nordico e americano, approdando a un’arte fatta di materiali caldi e residuali; un’arte che non crede più nell’oggetto, ma nel processo. Il divenire, il farsi, il darsi come viaggio nella materia, esperienza alchemica, percorso costitutivo del senso e della forma, sempre instabile.
Alighiero Boetti, – “Io penso di fare dei lavori che tutti potrebbero fare, ma che poi stranamente nessuno fa. Li faccio solo io e questa è al cosa che mi piace di più” – Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Giovanni Anselmo, Pierpaolo Calzolari, Luciano Gabro, Piero Gilardi, Jannis Kounellis, Mario e Marisa Merz, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Giulio paolini, Gilberto Zorio. Ed è ancora Boetti a fornire una chiave illuminante, che racchiude la poetica del movimento: “Penso che la natura è una forza cieca, ottusa, che scorre solo per questo principio fondamentale che è l’esistenza, la vita”.
Infine, la body art, tra la fine degli anni sessante e l’inizio dei Settanta. Le origini legate alle sperimentazioni sul corpo dell’arte giapponese, le racconta Angela Vettese. E mentre scorrono filmati d’epoca, documentazioni fotografiche e testimonianze originali di Vito Acconci, Chris Burden, Urs Luthi, Marina Abramovic, Gina Pane, Gilbert & George, è Lea Vergine, grande studiosa del movimento, a commentare così: “Questi artisti facevano un uso del loro corpo tra patologia dichiarata, bisogno di esporsi all’altro, esibizionismo psichico. Tutti fattori che esprimevano un grande disagio alla base della comunicazione”. Una ricerca che intanto si intrecciava con le grandi esperienze del teatro sperimentale: Living Theatre, Carmelo Bene, Grotowski, Barba, Kantor.
Tra tutti i body artisti, la francese Gina Pane, era quella che più riusciva a mantenere una distanza col pubblico, non cercava il contatto, il coinvolgimento. Solo una volta, racconta Vettese, la gente intervenne per fermarla, perché il suo gioco con il limite, la paura e il dolore, stava violando un tabù insopportabile alla vista ed al pensiero…
– Helga Marsala
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