Relazione e comunità nell’arte di Elena Bellantoni a Montelupo Fiorentino
Partecipazione e relazione sono due aspetti importanti del gesto performativo messo in atto da Elena Bellantoni durante la residenza a Montelupo Fiorentino curata da Christian Caliandro, che qui ne approfondisce le peculiarità
Il punto non è l’arte comunitaria, o l’opera collettiva per forza. Non c’è nessun obbligo, naturalmente, così come non c’è alcuna prescrizione, o costrizione ideologica (in questa maniera non vengono fuori opere, o vengono fuori opere immancabilmente scadenti).
La partecipazione è certo uno degli elementi che entra, inevitabilmente, nel “risultato finale” – che comunque non esiste, perché è tutto parte di un processo in corso, di un processo che avviene, destinato a proseguire e dagli esiti imprevedibili…
Ecco, il processo. Un’idea confluisce nell’altra, una pratica nell’altra. La relazione con gli artigiani, con gli “esperti” della materia e delle tecniche, è fondamentale – ed è fondamentale anche il modo in cui questa relazione nasce e si costruisce, gli incontri che si succedono l’uno dopo l’altro e i dialoghi che nascono e si articolano. È fondamentale anche il modo in cui questi scambi contribuiscono allo sviluppo del processo. Il lavoro, l’idea che sembrava marginale diventa centrale, un po’ come nel rapporto tra film immaginato e film girato descritto da Fellini a proposito di 8½: “L’ho girato senza vedere mai nulla di quello che facevo, perché era in atto uno sciopero di quattro mesi di tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa. Rizzoli voleva fermare il film, Fracassi, il direttore di produzione, si rifiutava di proseguire la lavorazione. Ho dovuto impormi, gridare, per obbligare tutti a continuare ugualmente. Ed è stata la situazione ideale. Perché a me sembra che quando vai a vedere giorno per giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo, che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai veramente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l’unico film possibile. L’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo” (Federico Fellini, Fare un film, Einaudi 1980, p. 166).
ELENA BELLANTONI A MONTELUPO FIORENTINO
Così, la visione della Pesa, di questo fiume così importante per l’identità del luogo, per la storia e la memoria della comunità e dei singoli, diventa un’immagine di partenza, molto potente, che genera a sua volta azioni, gesti, connessioni – e questi gesti condensano tutto ciò che è accaduto nei giorni e nei momenti precedenti.
È ciò che Elena Bellantoni chiamava, all’inizio, “formalizzazione finale”, o “trasfigurazione”.
Per questo, mentre guardo nel sole accecante e nel caldo rovente delle sei e mezzo di pomeriggio Elena vestita di nero, che taglia a fette e a lastre un panetto intero di argilla, di terra rossa da venticinque chili, e poi lancia e schiaccia e calca queste lastre sul letto del fiume, su sassi legni foglie piante rifiuti, mi rendo conto che sto assistendo e stiamo assistendo a qualcosa di molto forte e immediato e al tempo stesso articolato, qualcosa che è difficile descrivere ma che mi impegnerò a descrivere – e mi viene in mente l’elenco di aggettivi di un anno fa che è finito anche nel libro, relativi a un’arte
SPONTANEA APERTA LIBERA PRECARIA IMPERMANENTE FRAGILE MOBILE MUTEVOLE VIVA SFRANGIATA.
(Le lastre sono sfrangiate, i gesti compiuti sono sfrangiati, e quando l’argilla aderisce alla pelle del fiume dopo un po’ non si distingue più, non si riconosce più, si perde e quasi si consuma nel paesaggio…)
Le stesse sensazioni le provo mentre, il giorno dopo, Elena scrive a conclusione con il bianchetto, con la terra bianca resa liquida e cremosa, MISONOSECCATA in un’unica parola alta quanto lei sull’argine del fiume… È forse questo “l’apparire di qualcosa o qualcuno di imprevedibile entro uno spazio avvezzo al proprio contenuto” di cui parla Josif Brodskij in Dall’esilio, è l’emergere di “un’altra sfera inattesa” di cui scrive Carl Schmitt in Teoria del partigiano.
“PROTAGONISTI L’Artista (una donna)
Il Pubblico (donne e uomini di età differenti)
LO SPAZIO Il letto della Pesa
L’AZIONE L’Artista inizia la sua azione sul letto della Pesa: taglia e modella un panetto di argilla in pezzi che diventano lastre che sistema nello spazio.
Si apre un secondo atto: il Pubblico può, se vuole, interagire con l’Artista. Singolarmente o a coppie vengono consegnate delle lastre da distribuire nello spazio come a ricalcarlo.
Il tempo dell’azione è quello della posa a terra.
Il resto del Pubblico è nello spazio; quando vuole, se vuole, può aiutare i partecipanti a rimuovere le lastre.
L’Azione si conclude quando l’Artista si avvicina al margine per iniziare un ultimo gesto di ri-scrittura della Pesa” (Elena Bellantoni).
‒ Christian Caliandro
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