Nuovi sguardi sull’Amazzonia. La mostra di Sergio Vega a Napoli
Alla galleria Umberto Di Marino a Napoli, la mostra di Sergio Vega è un progetto fotografico realizzato nella regione Amazzonica del Mato Grosso. Scardinando gli stereotipi del “paradiso terrestre” a tutti i costi
Sin dal 1995, anno in cui si avvicina a quella teoria sul Jardín del Edén che Antonio de León Pinelo nel suo El Paraíso en el Nuevo Mundo. Comentario apologético, historia natural y peregrina de las Indias Occidentales, Islas de Tierra Firme del mar Océano pensava di aver trovato in Amazzonia, Sergio Vega (Buenos Aires, 1959) ha intrecciato differenti linguaggi per ridisegnare un viaggio in uno dei luoghi più impenetrabili del pianeta terra per lavorare di ironia e di denuncia sottile, per scardinare gli stereotipi culturali usando l’arma degli stereotipi, per “esaminare la storia del colonialismo e la condizione presente del Sud America”, per scompaginare la linearità del tempo e lavorare di spiazzamento, di estraneazione, di interferenze costruttive (riflessive) sul subdolo progetto ideologico (economico, capitalista) di ieri e su quello di oggi. “La credenza che l’Eden non fosse stato travolto dal Diluvio Universale ha avuto […] enormi conseguenze per l’espansione del Cattolicesimo nel Nuovo Mondo: la presunta esistenza del Paradiso in Sud America ha di fatto giustificato l’azione evangelizzatrice della Chiesa e la colonizzazione di quelle terre. Oggi, perfino i più autorevoli ambientalisti non escluderebbero, nel loro inconscio, che il Paradiso Terrestre si celi da qualche parte nella foresta amazzonica. Le foreste pluviali amazzoniche sono il luogo dove la teoria dell’evoluzione si sovrappone a quella del mito del Giardino dell’Eden”.
SERGIO VEGA E L’AMAZZONIA
Ispirandosi costantemente al volume di Antonio de León Pinelo, tanto da utilizzarne il titolo per varie esposizioni – quella al Palais de Tokyo del 2006, ad esempio – o anche per il suo joyceiano diario di viaggio dove “il narratore assume diversi ruoli, come se fosse affetto da un disturbo di personalità multipla”, Vega propone un progetto brillante dove natura e cultura, architetture tropicali e moderniste (Modernismo Tropical è il titolo di alcune sue esposizioni del 2002), esaltazioni e disagi, eccessi e difetti, stato selvaggio e domesticazione sono soltanto alcune forme dialettiche (centrale nel lavoro di Vega è anche quella dicotomia capitalismo-marxismo ancora irrisolta), alcune antinomie di una terra domata dal mondo dell’uomo occidentale, del colonizzatore, del conquistatore.
LA MOSTRA DI SERGIO VEGA A NAPOLI
A cloud-forest of paper and ink, la quarta esposizione organizzata alla Galleria Umberto Di Marino, è oggi un itinerario intermittente scandito da 24 magnifici scatti fotografici in cui, se da una parte la natura riprende il sopravvento sulla cultura (mostra la sua forza magnetica, si fa intreccio e giardino, trappola per lo sguardo e maestosità), dall’altra c’è l’opera dell’uomo, attenta a scandire lo spazio, tanto da richiamare alla memoria tutto quel bagaglio culturale che, sempre così troppo chiaro e lineare, ha definito (forse anche limitato) la storia dell’occidente.
Guardandole attentamente queste foto (sono tutti scatti del 2015) enigmatiche e a tratti impenetrabili, abbiamo infatti immagini sovrapposte di luoghi addomesticati e circoscritti (la chiesa di Mansion rancho post cables, 2015), ma anche, ed è il caso di Picasso’s Lines (2015) o di Rough, twisted Rhythm (2015), in cui la natura, la terra, l’erbaccia, che nell’idea di Claire Parnet è “una lezione di morale”, si mostra in tutta la sua sinuosità, in tutto il suo incantevole disordine, in tutta la sua straordinaria (ondulata) eleganza. “Alcune foglie divennero pallide, quasi traslucide; altre divennero specchi scintillanti che riflettevano una luce intermittente in tutte le direzioni. Gli animali, gli uccelli e gli insetti erano tutti svaniti, come inghiottiti dal silenzio regnante. Il bianco fumante delle nuvole si insinuava in tutte le cose, contrastando le sagome scure e ruvide dei tronchi d’albero che lasciando sospesi i propri rami creavano un labirinto di nodi inestricabili”, scrive l’artista nel suo diario di viaggio (Paradise in the New World).
‒ Antonello Tolve
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