Quando l’ecologia, il cinema e la fotografia si incontrano. Intervista a Raffaela Mariniello
Dedicato interamente al ruolo fondamentale del fiume Volturno, il film si presenta come un viaggio sorprendente all’interno di un territorio ricco di poesia e contraddizioni. A raccontarci di questa esperienza è la regista stessa
Fra le numerose pellicole proiettate al Cinema Massimo di Torino durante la 25esima edizione di CinemAmbiente (l’ormai consolidato festival dedicato ai film e ai documentari ambientali) ve ne è una particolarmente interessante che non ha potuto lasciare indifferente il pubblico in sala. Stiamo parlando di ZioRiz, l’inaspettato esordio alla regia dell’artista e fotografa campana, Raffaela Mariniello (Napoli, 1961). Intitolato con lo stesso nome della canoa utilizzata da Gennaro – sorta di psicopompo ideale incaricato a traghettare lo spettatore verso idilli e inferni di un territorio fragile e maestoso come quello attraversato dal fiume Volturno, in Campania –, il lungometraggio è un lavoro ibrido a metà strada fra il documentario, l’opera di fiction e il film d’artista. L’intervista.
ZIORIZ: L’INTERVISTA ALLA REGISTA RAFFAELA MARINIELLO
La prima cosa che salta subito all’occhio guardando ZioRiz è il suo fortissimo taglio fotografico. Fra time lapse e inquadrature impeccabili, tutto il film sembra infatti una lunga sequenza fotografica in movimento nella quale la poetica che da sempre contraddistingue il tuo lavoro prende magicamente vita. Fatta eccezione per alcune incursioni passate nel mondo della video arte, questa è la prima volta che ti cimenti in un’opera filmica a tutti gli effetti.
Qual è stata l’esigenza che ti ha portata a realizzare un lungometraggio vero e proprio?
L’idea di mettere in movimento le mie immagini. E in questo senso ZioRiz è decisamente il film di una fotografa. Mi sono sentita molto libera in questa operazione: ho messo in sequenza fotografie, puntando a creare una storia ma senza limitare la potenza dell’immagine. Ho sempre desiderato fare un film, a volte credo sia una voglia comune a molti fotografi, e siccome mi piace mettermi alla prova – sperimentare e rischiare per me è sempre meglio che ripetermi – ho provato a fare un lungometraggio, senza sceneggiatura, senza neanche un soggetto iniziale: il lavoro è andato avanti da sé, rovesciando le regole dell’industria del cinema e trovando una sua luce che in tanti mi dicono interessante.Ho filmato io stessa senza operatore e con una macchina fotografica tramutata in videocamera, con l’esperienza fotografica alle spalle non mi è stato difficile filmare, anche se in parte le due cose siano molto diverse.
Come mai hai deciso di dedicare il tuo primo film al territorio del Volturno? Raccontaci un pò la genesi di questo progetto.
L’idea nasce da un desiderio di riscoprire l’entroterra della Campania: da sempre ho raccontato fotograficamente il nostro territorio ma forse soffermandomi di più sulle città, le isole, i porti.
Il Volturno non rappresenta soltanto sé stesso ma anche e soprattutto la realtà circostante in una visione paesaggistica e antropologica che può rispecchiare l’intero Sud, addirittura ogni Sud del mondo. Il fiume diventa così un mezzo, una strada per raccontare la regione ma non solo.
Chi ha lavorato al film?
Quello che è stato molto interessante è l’aspetto laboratoriale del progetto: ho coinvolto tante persone del territorio facendole improvvisare nei loro ruoli: un assessore land manager, un assistente pizzaiolo, un produttore esecutivo pescatore e un attore ingegnere in pensione. E tutto questo è nato sul campo, giorno per giorno, in un’esperienza umana fortissima. Solo la disponibilità di tutte le persone coinvolte ha reso concreta quest’avventura iniziata come un gioco.
Da Mario Giacomelli e Luigi Ghirri fino a registi come Pasolini, Garrone o Sorrentino, sono molti i maestri dell’immagine che in qualche modo sembrano averti condizionata sulla scelta di personaggi specifici e i loro relativi contesti. A parte quelli già citati, quali altri autori ti hanno particolarmente influenzata nella realizzazione di determinate scene?
Quando ho guardato i film di Gianfranco Rosi, Sacro G.R.A., avevo anche io in mente qualcosa di simile ma averlo visto realizzato mi ha illuminata. In fondo, invece di percorrere una strada d’asfalto come nel film di Rosi, con ZioRiz si attraversa un fiume che è una strada d’acqua. Poi mi piace molto Sorrentino, che conosce e stima la mia fotografia, e in qualche modo mi sono lasciata suggestionare dal suo messaggio. Sono le riprese che riguardano gli aspetti antropologici in ZioRiz che forse ricordano alcune sue atmosfere, ma erano figure che avevo già affrontato tempo fa con il video Souvenirs d’Italie (Souvenirs d’Italie, colore, 2006, 25 min.) sul turismo di massa e gli stravolgimenti dei modi di vivere un territorio.
Chi sono i personaggi di ZioRiz?
Sono gli stessi abitanti del fiume, con abitudini e costumi un po’ paradossali che ho già filmato in passato in altri contesti, ma che qui ritornano prepotenti. Un ragazzo che lava il suo cavallo al fiume, le suore che giocano a palla sulla riva e anacronistici boy scout che attraversano la boscaglia, per non parlare dei finti soldati che giocano alla guerra, sono stati ripresi per descrivere le stranezze del modo di vivere. Certo, le suore con la palla sono un omaggio ai pretini di Giacomelli.
Oltre all’immagine, in ZioRiz gioca un ruolo molto importante anche il sonoro (che forse tocca l’apice in una sequenza nella quale il volo di alcuni uccelli si confonde con le note di un brano del noto musicista giapponese Cornelius). Nella costruzione di un film così contemplativo viene prima il suono o l’immagine? Come hai ragionato durante le riprese e in fase di montaggio?
Sono il belare delle pecore e il suono dei campanacci presenti nel brano di Cornelius che sposano magicamente immagine e suono: Cornelius è un autore che mi è capitato di sentire spesso e che mi piace tanto, ma per me arriva prima l’immagine e poi il suono. Anche se attraversare il territorio in automobile ascoltando la musica fa già il film, lo costruisce inevitabilmente, e Cornelius è stato uno degli autori che più ho ascoltato.
Non essendoci scrittura filmica, ho costruito un montaggio mano a mano: facevo riprese e le connettevo al girato precedente, andando avanti senza neanche sapere bene come chiudere. Poi è bastata una passeggiata sulla spiaggia di Castelvolturno con i bambini seminudi che inseguono Gennaro sbarcato a terra, per capire che la fine del film era lì, in quella emozione.
Il delicato e spesso contraddittorio rapporto tra l’uomo e la natura è alla base dell’intero film, e se pensiamo soprattutto a fenomeni recentissimi come le eccessive ondate di calore che in questo ultimo periodo stanno facendo registrare in Italia inquietanti episodi di siccità, ZioRiz si veste di un senso tutto nuovo ed estremamente attuale. Credi che l’arte possa ancora svolgere un ruolo importante nel sensibilizzare su temi così urgenti? La tua opera è nata anche con questo scopo?
Il tema ecologico ritorna in tutta la mia produzione, a cominciare trent’anni fa con il ciclo di lavori su Bagnoli (Bagnoli, una fabbrica, 1991, Electa Napoli). È un’ecologia ambientale e umana quella di cui parlo: i centri storici italiani nell’era pre Covid li chiamo periferie dell’anima perché attraversati da orde di turisti che solo il Covid ha fermato, anche se adesso tutto sembra tornato come prima. L’attualità di ZioRiz sta nel fatto che mostra chiaramente la catastrofe a cui andiamo incontro: il viaggio lungo il fiume inizia dalla natura incontaminata della sorgente per arrivare al disastro ecologico della foce, nelle spiagge un tempo meravigliose di Castelvolturno. Ma il film è pure una metafora dell’esistenza umana, che nasce pura e finisce corrotta e disperata. Certo ZioRiz punta anche a sensibilizzare il pubblico su temi ambientali che da sempre mi stanno a cuore, e in questo sono convinta che l’arte possa porre accenti su certe situazioni sociali: può focalizzare dei temi, può suggerire riflessioni. Ma l’arte non può essere politica né tantomeno risolvere delle questioni, non può giudicare ma solo osservare.
Quanto e cosa hai imparato da questa esperienza cinematografica?
Come dicevo prima, è l’esperienza umana che è stata veramente speciale, libera. I rapporti sociali a volte per me faticosi, qui si sono risolti con una comunanza di intenti, un senso del lavoro che non è solo fatica ma grande soddisfazione per tutti.
Pensi di continuare a rimetterti dietro la macchina da presa? Qualche anticipazione su progetti futuri?
Non vedo l’ora di rimettermi dietro una macchina da presa e stavolta avrò anche maggiori cognizioni tecniche. Vorrei fare un film sull’Ilva di Taranto, una delle ultime acciaierie italiane, tra le più grandi d’Europa. Mi piacerebbe riprendere una notte di lavoro di un operaio che vede la luce del giorno solo alla fine del film. Lo spettacolo della fabbrica che con i suoi miasmi appesta la città è un tema che conosco già molto bene. Tornare in un’acciaieria mi fa tornare indietro nel tempo, a quando trentenne fotografavo l’Italsider di Bagnoli. Costatare che nulla è cambiato, rispetto a morire di lavoro o morire per la sua mancanza, mi fa pensare che nell’era post industriale questo è un dramma ancora totalmente irrisolto.
-Valerio Veneruso
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