Il mondo dell’arte si mette in posa

Perché tanti operatori dell'arte hanno assunto un tono perentorio, assertivo anche se accattivante, che non consente repliche? La riflessione di Christian Caliandro

Un aspetto che mi colpisce sempre molto dell’arte e della cultura di questo tempo ha a che fare con l’atteggiamento generale che assumono i suoi protagonisti, nella presentazione e nella rappresentazione di sé. Si tratta infatti di quel “mettersi in posa” di cui spesso ho parlato su queste pagine, usando anche per definirlo il termine-concetto likeability.

Questo atteggiamento indica un intero set di comportamenti, di scelte, di tic, e persino un “tono”, che all’inizio magari può risultare vago, ma che una volta individuato si fa sempre più preciso nel modo di proporre i contenuti culturali. È sufficiente consultare – anche rapidamente – i post sui social di scrittori e artisti: è un tono perentorio, assertivo anche se accattivante, che non consente repliche, o se è per questo alternative.

Questo tono è un fatto sia stilistico che psicologico: è il tono cioè di chi offre un’unica rappresentazione, un’unica immagine di sé, delle proprie idee, della propria opera. E questa immagine non ammette sfumature, non ammette ambiguità – quindi, di fatto, non ammette profondità né sviluppi imprevisti. È così e basta, e vi sta dicendo che dovete ammirarla perché corrisponde integralmente ai vostri valori, a ciò che pensate vada bene e sia accettato, gradito, desiderato…

Qualcosa che ha o aveva a che fare con la comunicazione pubblicitaria si è tradotto e trasferito prontamente al territorio dell’opera – a come si pensa e si fa l’opera, a come l’opera si rapporta con il mondo esterno – con me, con noi.

È come se l’autore, l’artista, lo scrittore, avesse imparato velocemente a imporre il suo senso, il suo significato, la sua interpretazione (ancora una volta: univoci; unidirezionali; irreversibili), a trasmetterli così come sono verso spettatori e lettori.

Tutto questo, oltre a limitare in modo piuttosto rigido le potenzialità dell’opera, punta in modo sicuro e senza pentimenti nella direzione del decorativo, del retorico e, in fondo, del reazionario.
E poi, c’è una quota ineludibile di artificio, di finzione, di insincerità. Come scriveva David Foster Wallace, è l’insincerità del sorriso di qualcuno che vuole venderti a tutti i costi qualcosa, di qualcuno che è interessato: “Un annuncio pubblicitario che fa finta di essere arte è – quando va bene – come quando qualcuno vi sorride cordialmente solo perché vuole qualcosa da voi. Questo è già disonesto, ma il peggio è l’effetto finale che tale disonestà suscita in noi: poiché esso offre un perfetto facsimile o simulacro di buona fede senza il vero spirito della buona fede…” (Una cosa divertente che non farò mai più, minimum fax 2017, p. 58).

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Guardo le foto di Elena Bellantoni mentre taglia le lastre di argilla direttamente dal panetto nel letto secco della Pesa, e poi nel caldo di un tardo pomeriggio di luglio le lancia e le schiaccia con tutto il corpo – con le mani, con le ginocchia, con i piedi – imprimendo le forme dei sassi, delle foglie, dei legni e dei rifiuti, che poi verranno cotte…
E guardo le foto del giorno in cui Serena Fineschi eravamo da Patrizio e Stefano Bartoloni, il giorno dei “piedini”: questi oggetti derelitti, dimenticati, o mai veramente visti, che riposano sopra il forno o si nascondono sotto il forno, che se fossero degli animaletti, e che improvvisamente vengono “riconosciuti”, considerati cioè in modo diverso dal solito. Non è solo un fatto di dignità, di attenzione – quanto piuttosto di trasformazione. Se i piedini iniziano il loro viaggio verso la condizione di “opera”, non per questo smettono di essere “oggetti quotidiani”. Vivono cioè una condizione in between, sospesa tra due mondi e tra due stati, ambigua e ambivalente, ibrida. Devo dire che questa è la condizione che mi interessa e che mi affascina maggiormente: è segreta, è nascosta.
È come quel giorno in cui, alle sei e mezza di mattina, con Elena, Benedetta (Falteri, direttore del Museo della Ceramica di Montelupo) e Aglaia (Viviani, assessore alla cultura di Montelupo) siamo partiti per rintracciare il punto esatto in cui la Pesa si secca, e l’acqua smette di scorrere. Siamo andati così alla Pescaia dei Capitani, e poi da lì abbiamo percorso a piedi il letto del fiume: il punto esatto non c’è, è vero, perché l’acqua finisce e poi ricomincia, ci sono le pozze più avanti… Però, quella zona indistinta, quel margine e quel confine indefinito, mobile, è magico proprio per questo.
Più vado avanti (si è fatto agosto, nel frattempo) e più mi convinco che l’arte si trovi in questa terra di mezzo, così oscura e indefinibile – così lontana dal “mettersi in mostra”, dal mettersi in posa ad ogni costo, rischiando anche il ridicolo e il cattivo gusto.

– Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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