La Biennale di Cecilia Alemani? Una piacevole sorpresa
Stefano Castelli commenta la Biennale veneziana di Cecilia Alemani mettendone in luce i punti di forza, come la capacità di (ri)leggere efficacemente l’arte del secolo scorso e quella attuale
Sono giunto alla Biennale di quest’anno aspettandomi una delusione. Non tanto per sfiducia nei confronti di Cecilia Alemani o della Biennale in sé, ma perché avevo accumulato una serie di delusioni/disillusioni rispetto allo stato attuale dell’arte: sempre più frequenti espressioni di stampo decorativo-commerciale, mostre “alla moda” che tentano di sfruttare argomenti come i diritti civili delle minoranze, contestazione all’acqua di rose che in realtà finisce per accodarsi comodamente allo status quo.
In questo panorama, Il latte dei sogni è stata invece una piacevole sorpresa, trattandosi di una mostra che suscita interesse, fa scoprire diversi autori invogliando a studiarli, propone una visione non addomesticata dell’arte e della società e infine presenta una lettura personale dell’arte del Novecento e attuale.
L’ARTE RADICALE È ANCORA POSSIBILE
L’approccio della mostra è certamente radicale, con marcati tratti perturbanti. Non è costruita né come rassegna dell’esistente né come rilettura antologica dell’arte del Novecento, ma come mostra felicemente “tendenziosa” ‒ ovvero capace di creare corrispondenze, prospettive, visioni oblique che collegano elementi anche molto lontani tra loro per geografia o cronologia. È quel che ci si aspetta da una mostra, ancor più da una biennale, si potrebbe dire. Ma è ultimamente quasi una rarità (anche all’interno del panorama veneziano di quest’anno, dove molti padiglioni nazionali cadono nelle banalità alla moda di cui sopra) e perciò risulta rinfrescante sul piano intellettuale. Al di là dell’approccio, c’è poi un contenuto niente affatto di maniera: figura, materia, corpo, spazialità delle opere sono utilizzati come altrettanti strumenti di rilettura del mondo e di posizionamento dello spettatore rispetto al mondo stesso.
ARTE FEMMINISTA E NON “AL FEMMINILE”
Ho cominciato a diffidare delle mostre “al femminile”. Nella maggioranza dei casi si tratta solo di una rassegna di artiste, senza legami specifici (in un passato non remoto, autrici radicalmente femministe come Adrian Piper rifiutavano di apparire persino in libri antologici di questo tipo considerandoli un ulteriore ghetto). Nei casi peggiori, poi, si delinea una supposta poetica femminile che è ripiegata sull’intimo e su altri tratti stereotipati che non fanno gioco alla sacrosanta emancipazione, tutt’altro.
Ecco, la mostra Il latte dei sogni è invece una mostra non al femminile, ma femminista (parola ormai quasi espunta dal discorso pubblico, ma preziosa). Perché immaginario, esperienza e corpo delle artiste vengono “sacrificati” a favore della creazione artistica; perché essi danno vita a visioni del tutto autonome, strutturalmente emancipate; perché, infine, le opere presentate includono, a scopo di testimonianza e di critica, lo sguardo maschile come elemento storico da individuare per essere circoscritto e neutralizzato nelle sue componenti di dominio.
LA LIBERA RIVISITAZIONE DEL SURREALISMO
Per lunghi anni, il Surrealismo è stata una tendenza dominante. Fino agli Anni Sessanta e oltre, era un sottinteso praticamente immancabile – un orizzonte culturale condiviso ‒ nelle opere degli artisti anche di tipo molto differente e lontano dal dogma di Breton e compagni. Successivamente, il cambiamento nello spirito del tempo lo ha escluso come opzione ed essere anche vagamente surrealisti significava non tenere conto della storia.
Il massiccio ripescaggio della cultura surrealista che viene fatto da Cecilia Alemani nella sua mostra dimostra invece come oggi sia possibile trattenerne le caratteristiche tuttora ideologicamente accettabili, escludendo quelle non più valide. Il ricorso a strutture di pensiero e di espressione di stampo non completamente razional-intellettuale, lo sguardo puntato fermamente sull’inconscio individuale e collettivo, la ricerca di “viscerali” strade alternative al pensiero maggioritario, come forma di autodeterminazione e forma laica di trascendenza, sono altrettanti strumenti fecondi di indagine estetica e intellettuale.
LA PITTURA È VIVA E VEGETA
La normalizzazione del gusto cui si accennava sopra si esprime anche e soprattutto nella pittura, con ampi usi di sfumature accademiche, insincere poetiche intimiste oppure artificiosamente sgargianti, fatte apposta per stare su Instagram. Ebbene, nel Latte dei sogni basta osservare i lavori di Christina Quarles, Jana Euler, Allison Katz, Charline Von Heyl (e anche l’opera di Louise Bonnet, per quanto meno risolta) per tornare speranzosi sull’evoluzione della pittura odierna. In tutti questi casi, l’idea del “pretesto pittorico” è assodata: soggetto e stile sorprendono per la loro dimensione incongrua, per poi conquistare lo spettatore e farlo riflettere sulla pittura in quanto tale e sulla possibilità stessa, oggi, di un’immagine e di una rappresentazione.
COSTRUIRE UNA MOSTRA
Tornando all’impostazione generale della mostra, la curatrice opera decisamente nella direzione di quella che una volta si definiva “scrittura” espositiva. Pur lasciando spazio alla concretezza della visione, l’esposizione si struttura infatti come un saggio in tre dimensioni (e non come un “intertesto” o una pagina Instagram).
Tale approccio, che potrebbe sembrare démodé, potenzia invece la dimensione spettacolare e visuale del percorso. Con il difetto del gigantismo e dell’accumulo, certo, soprattutto nelle prime sale dell’Arsenale. Ma con una efficacia e una chiarezza di fondo che consentono alla Biennale di rimanere impressa.
A questo proposito, la Biennale di Cecilia Alemani non somiglia affatto, come invece potrebbe sembrare, a quella di Massimiliano Gioni del 2013. In quel caso la catalogazione enciclopedica dell’esistente tendeva, allargando il campo, a parificare più o meno volontariamente espressioni di tipo diversissimo. Qui, al contrario, l’inclusione di forme d’arte normalmente non contemplate valorizza le singole espressioni, includendole in un insieme coerente ma non arruolandole ai propri scopi.
‒ Stefano Castelli
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