Le risposte della cultura alla guerra secondo 9 protagonisti del mondo dell’arte
A oltre sei mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina, come si stanno comportando intellettuali o uomini e donne di cultura? Lo abbiamo chiesto a scrittori, curatori, artisti e direttori
I recenti avvenimenti in Ucraina hanno messo in luce il tema della relazione tra conflitto, tutela del patrimonio, dibattiti su eventuali sanzioni e posizioni che si sono allargate al mondo della cultura. Qual è il corretto comportamento? È giusto oppure no escludere dalle manifestazioni culturali operatori del settore, autori del passato o tematiche che rappresentano un determinato attore del conflitto? Come si devono porre le istituzioni culturali?
‒ Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65/66
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
GIANLUIGI RICUPERATI ‒ SCRITTORE
Credo che il nostro imperativo assoluto debba essere partecipare alla resistenza dell’Ucraina contro l’Invasione russa fino a quando tale invasione sarà in corso. Come possiamo farlo? Isolando il governo russo a ogni livello. I padiglioni delle Biennali e Triennali importanti sono emanazioni dirette dei governi. Le manifestazioni culturali russe e le traduzioni dei romanzi russi contemporanei spesso beneficiano di erogazioni economiche da parte di istituzioni legate al governo. Non si può collaborare con un governo che minaccia la nostra vita, la nostra democrazia, la nostra cultura, e per certi versi – in modo esteso e ipotetico – la sopravvivenza della nostra specie. La Russia di Putin è un nemico e un ostacolo all’evoluzione della specie umana sul nostro pianeta, in un momento peraltro in cui dovremmo essere tutti uniti a lottare perché ci sia ancora una presenza umana su un pianeta sempre più surriscaldato.
MARIACRISTINA FERRAIOLI ‒ CURATRICE
Se usciamo dalla logica dell’arte come puro oggetto decorativo e ne riconosciamo la capacità di smuovere coscienze e immaginazione anche come azione politica e strumento di indagine sociale, proprio perché in questo momento “muoiono innocenti sotto le bombe”, è quanto mai urgente far sì che l’arte “parli” e si esprima sempre nella maniera più libera possibile. È vero che è affare estremamente complesso. Negli scorsi mesi, ad esempio, ha fatto discutere la decisione [presa da artisti e curatore, N.d.R.] di chiudere il Padiglione Russia alla Biennale di Venezia. Sappiamo bene che i padiglioni nazionali sono finanziati dai governi e sono spesso espressione della politica dominante ma, proprio per questo, una macchina mastodontica come quella della Biennale deve trovare un modo per tutelare il punto di vista di tutti. Ad esempio, adottando la soluzione di ospitare gli artisti in un altro padiglione o in un evento collaterale come avvenuto già per l’artista cinese Ai Weiwei o per Tania Bruguera, giusto per citare due esempi dissidenti. L’arte e gli artisti non possono tacere, specialmente in un momento come questo. È una sconfitta non solo per la Biennale, ma per l’intero sistema. Del resto, si sa: il silenzio è da sempre la scelta più comoda per il potere.
ELVIRA VANNINI ‒ FONDATRICE HOTPOTATOES
Come tutte le guerre, l’aggressione e l’occupazione militare dell’Ucraina è espressione della violenza sistemica, predatoria e fascista del patriarcato, quindi bisogna cessare ogni collaborazione con il regime autoritario russo, anche se sarebbe un grave errore politico mettere a tacere indiscriminatamente le voci del dissenso. Boicottare gli oligarchi che guidano la guerra di Putin. Sabotare i predatori miliardari e il capitalismo selvaggio delle politiche neoliberali che demonizzano il femminismo, l’omosessualità, i diritti civili e che hanno prodotto un’accumulazione senza precedenti ripulendosi con l’artwashing: dal mega collezionista Abramovich, co-fondatore del Garage, alla V-A-C, di fronte al Cremlino, trasformata da un magnate del gas in un tempio dell’arte inaugurato da Putin in persona, altro che soft power. Dove eravamo allora? Oggi, mentre l’Ucraina cade sotto i bombardamenti, le azioni del colosso della difesa Leonardo Spa, prima industria bellica italiana per produzione ed esportazione di armamenti (terza in Europa e decima al mondo, controllata per il 30% dallo Stato), volano in borsa, traendo enormi profitti dal conflitto: il ruolo delle nostre istituzioni sta nel denunciare anche questo, altrimenti si possono cancellare un padiglione o una mostra senza mettere in discussione il proprio potere ma ricavandone in visibilità.
STEFANO BOERI ‒ PRESIDENTE TRIENNALE DI MILANO
In un momento così drammatico, crediamo che sia più importante che mai preservare e valorizzare le occasioni di dialogo tra Paesi, culture, popoli diversi. Ed è esattamente questo l’intento della 23a Esposizione Internazionale: offrire uno spazio di discussione aperto e libero in cui personalità del mondo della cultura, dell’arte, del progetto e della scienza, provenienti da tutto il mondo, porteranno il loro sguardo e la loro esperienza. Triennale Milano ha, sì, deciso di revocare la partecipazione del governo russo alla 23a Esposizione Internazionale, ma non vuole assolutamente escludere artisti, progettisti e scienziati russi che saranno comunque presenti nell’ambito dell’Esposizione Internazionale. Allo stesso modo ci siamo impegnati a garantire la presenza del Padiglione dell’Ucraina e abbiamo inaugurato il progetto Planeta Ukrain, per costruire un ponte tra i Paesi e mantenere viva la connessione con artisti, intellettuali, musicisti, critici, curatori e scienziati che si trovano in larga parte a Kiev o in altre città ucraine, al momento sotto i bombardamenti. Planeta Ukrain vuole essere una piattaforma che guardi al futuro e apra uno spiraglio di speranza, perché questo è il compito della cultura, dell’arte e di una istituzione come Triennale: immaginare continuamente e costantemente il futuro, mantenendo vivi il confronto e lo scambio.
LUIGI FASSI ‒ DIRETTORE ARTISSIMA
Nei confronti di istituzioni culturali incardinate in logiche di rappresentanza politica – tanto più in Paesi non democratici o comunque non liberali – è legittimo e anche doveroso manifestare dissenso, sino alla loro esclusione dall’arena del confronto culturale, se indulgono a forme di connivenza, implicite o esplicite, con politiche di violenza, negazione di diritti fondamentali e azioni eticamente inaccettabili. Diverso per istituzioni culturali che rispondono solo delle proprie idee perseguendo una logica di autonomia e indipendenza: a queste non può essere negato uno spazio di ascolto. Similmente, riguardo alle persone vale l’adagio illuminista: a ogni opinione deve essere garantito diritto di espressione anche se non possiamo condividerne i contenuti, e, va da sé, le persone non possono essere discriminate in quanto tali. Il riconoscimento della persona mediante la reciproca attribuzione di valore tra soggetti diversi nell’ambito dell’interazione sociale è un tema centrale della cultura europea ed è alla base della giustizia e del diritto sociale all’esistenza. Dobbiamo guardarci da processi di esclusione che colpiscono alcune categorie di individui, magari su base etnica, condannate a una degradazione morale e rigettate da una società che persegue omogeneità sociale. Quanto all’esclusione di grandi autori classici del passato, non voglio neanche credere una tale posizione sia da qualcuno ritenuta sostenibile. È semplicemente irricevibile perché l’ignoranza non può mai trovare merito di ascolto.
MARIA CHIARA VALACCHI ‒ CURATRICE
Oggi più che mai la cultura dovrebbe essere neutrale, depoliticizzata, volta a creare dialoghi; traghettarci verso la multiforme e profonda conoscenza dei popoli, delle tradizioni, non stigmatizzandola strumentalmente come parte del nemico. Da sempre il germe dell’ignoranza genera violenza e il pregiudizio verso l’altro non fa altro che erigerci su torri lontane dal vero. La cultura è verbo e non serve per distrarci dalle facezie della vita, ma ci fornisce una lente di ingrandimento che ci permette di comprenderne la sua complessità. Oggi invece sembra aleggiare un certo moralismo, una frenetica corsa alla censura che – forse inconsapevolmente – non avrà altro risultato che produrre pericolosi preconcetti generalisti e collegare la cultura a meri fini propagandistici, annichilendo la sua portata, la sua complessità, la sua necessità, la sua bellezza. Le istituzioni culturali, come tali, dovrebbero salvaguardarne ogni sua espressione, sforzandosi di superare dove possibile (e i casi possibili sono tanti) il semplicistico, e troppo tecnicistico, binomio cultura-governo. Non è reprimendo la letteratura russa ad esempio – come, ironia della sorte, proprio quel Dostoevskij confinato in Siberia (condannato a morte e poi graziato) per presunta appartenenza a un gruppo cospirativo contro lo Zar Nicola I – che si porta avanti una battaglia ideologica contro il governo russo o si è solidali all’Ucraina. Mi auspicherei uno sforzo maggiore, che si trovassero delle modalità più efficaci, invece di mosse del genere che per la loro palese approssimazione rischiano di diventare persino perniciose.
GIAN MARIA TOSATTI ‒ ARTISTA E DIRETTORE ARTISTICO QUADRIENNALE
Non commento i giudizi retroattivi. Penso che sia dovere degli intellettuali riflettere sul futuro. È lì che la nostra responsabilità è chiamata in causa. Ho molti amici che patiscono questo conflitto. Sto cercando di aiutarli come posso. La manager che ha lavorato per il mio studio fino a settembre è ucraina ed è rifugiata in Romania con la sua famiglia. Metà dei miei amici russi sono dovuti fuggire dal Paese perché minacciati. Io non vedo differenze tra la Russia e l’Ucraina. Sono due Paesi distrutti, pieni di vittime. Gli ucraini alla fine di questa guerra torneranno in un Paese distrutto che dovranno ricostruire. I russi fuggiti, forse, non potranno più tornare a casa per molti e molti anni. Non dobbiamo fare l’errore di confondere i dittatori con il popolo che tengono in ostaggio attraverso violenza e disinformazione. Il nostro compito è stare vicini alle donne e agli uomini che rappresentano i loro Paesi e le loro culture. Oggi come mai dobbiamo abbracciare gli ucraini che hanno perso tutto, ma non il futuro, e i russi che devono trovare la forza di riprendersi il loro Paese, strappandolo al fango di questa stagione di follia.
SILVIA BURINI ‒ DIRETTRICE CSAR – CENTRO STUDI SULLE ARTI DELLA RUSSIA
A proposito delle rivoluzioni che segnano l’avvio del Novecento, Szeemann aveva sottolineato che “i gesti iniziali del nostro secolo sono i quadri di Malevič, il ‘caos’ di Kandinskij, Mondrian e la piccola valigia di Duchamp”. Gli artisti russi sono forse meno noti dei grandi scrittori del loro Paese, ma la percentuale mi pare significativa: sia gli uni che gli altri, da Dostoevskij a Brodskij, sono stati spesso censurati e perseguitati; l’arte è fiorita nelle crepe del sistema, nel sottosuolo, negli appartamenti in coabitazione, ha resistito a ogni potente di turno… Oggi rinunciare a rapporti con enti governativi (anche culturali, come i musei) è una diretta conseguenza del conflitto e può essere giustificabile come corollario delle sanzioni, ma l’“embargo” alla cultura russa del passato e a quella dissidente del presente è inaccettabile. Credo che proprio ora la cultura russa, in ogni sua forma, vada studiata.
SERGIO RISALITI ‒ DIRETTORE MUSEO NOVECENTO FIRENZE
Il sistema dell’arte si trova spiazzato dal tragico che giunge, mai inedito, mai inusuale, e nel migliore dei casi quel sistema si trova a rincorrere il presente per recuperare lo scarto rispetto alla storia. Da quel momento in poi cresce la retorica, con tutte le sue figure e le sue apparecchiature. Moda e arte si allineano al sentimentalismo di maniera, riflettono la superficie mediatica assieme ai canali di comunicazione occupati da esperti di geopolitica, armamenti, tattiche militari e quant’altro. Il discorso e le immagini in movimento sembrano avvicinarci agli eventi ma in realtà ci astraggono da essi e alimentano l’assuefazione che è generata nell’immediato. Tanto l’istinto alla sopraffazione e alla violenza quanto l’istinto di sopravvivenza si bilanciano in noi dai primordi. Siamo tutti impreparati e improduttivi rispetto alla crudezza e terribilità del presente. All’artista e all’opera starebbe il grande compito di anticipare, di essere sempre in anticipo perché sempre nel cuore della tragedia. E ci poniamo le solite domande di sempre. Vengono prima le urgenze umanitarie o quelle culturali? Dobbiamo tutelare il patrimonio culturale e artistico o le persone? In altri momenti, superata l’urgenza più tragica, si potranno discutere i se e i ma. Non adesso, adesso i simboli di pace sanguinano. Nessuna opera d’arte allontana la violenza, la guerra. L’arte – un libro, un quadro, una scultura, un gesto simbolico – tutt’al più possono salvarci dall’angoscia perché ci danno da pensare, magari allentano la potenza degli istinti rendendoci più umani e perfino angelici. A me pare che un grande velo nero sia già steso sull’occidente da tempo. Un imperialismo fascista e violento stende la sua mano sul mondo. Ma facciamo come se così non fosse. Non credo sia il tempo adesso di lasciare solo agli altri il prendere decisioni radicali. Quando ci sono in gioco la vita e la libertà non resta che dissodare il linguaggio per comprendere chi siamo e cosa scegliamo di essere.
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati