Archeologia e clickbaiting: chi ci guadagna e chi ci rimette
Comunicare l'archeologia non è facile. Ma esagerare la portata delle scoperte per fare click su web o like sui social finisce per essere controproducente. Qualche spunto di analisi e qualche proposta
Nella nuova economia dell’informazione, l’attenzione, si sa, è il vero obiettivo di ciascun prodotto editoriale. Che si tratti di influencer o di riviste, anche di un certo rilievo, l’obiettivo resta immutato: accrescere il numero di utenti.
Non si tratta di logiche esecrabili: se ben impostate, tali dinamiche possono favorire di gran lunga la diffusione di conoscenza e un incremento della qualità dei contenuti. Quando però vengono interpretate in maniera “miope”, si soggiace alla logica dell’informazione urlata.
“Se una rivista inizia a esagerare le notizie, anche le altre saranno costrette a farlo.”
Sebbene il fenomeno sia ben noto, vale la pena sottolineare una “correlazione positiva” tra livello di complessità della materia trattata e utilizzo sistematico dell’iperbole giornalistica. Ragionando in termini astratti, questa correlazione è del tutto naturale: se un articolo tratta di una tematica di difficile lettura, è ovvio che l’editore punti a un titolo sensazionalistico, così da invogliare i distratti cibernauti all’ambito clic.
Quando però ci si discosta dal “concetto” e si inizia a ragionare in termini concreti, i risultati sono un po’ paradossali. Si pensi, ad esempio, a un tema come l’archeologia: un utente medio che si interessi anche solo vagamente alla materia riceve nelle proprie news, almeno una volta alla settimana, notizie che promettono di approfondire “la scoperta che cambia la nostra comprensione della storia”, salvo poi scoprire che rimandano ad articoli che non sono altro che un copia-incolla di un comunicato stampa.
Sono le regole del gioco, è vero, ma il rischio è che tali regole creino un effetto distorsivo sull’intera catena di creazione del valore.
I DANNI DEL CLICKBAITING SUL MONDO DEI MUSEI
Assunto per assioma che, sulla base di quanto già detto, le riviste, e soprattutto le riviste non specialistiche che utilizzano l’archeologia solo per raggiungere nicchie di interesse, hanno la necessità di essere “lette”, ne deriva la già citata conseguenza che, quanto più ostica è la notizia, tanto più è necessario incuriosire attraverso i titoli.
Questo comporta, da un lato, un andamento aggregato “crescente”, una sorta di “guerra dei prezzi” al contrario: se su una strada ci sono due negozi che vendono lo stesso prodotto e uno dei due inizia a “scontare” tale prodotto, anche l’altro dovrà adeguarsi, pena la perdita di tutti i clienti. Allo stesso modo, ricordando che stiamo parlando di riviste “non specializzate”, se una rivista inizia a esagerare le notizie, anche le altre saranno costrette a farlo, con la differenza che, mentre nella guerra dei prezzi ci sono “limiti oggettivi” (un venditore non può vendere all’infinito un prodotto a un prezzo più basso del suo costo), nel gioco iperbolico tali limiti non esistono.
Il lato positivo è che probabilmente molte persone apriranno una notizia di archeologia che, diversamente, non vincerebbe mai la concorrenza di notizie che annunciano le nuove funzionalità di WhatsApp. Il lato negativo è che però le persone si abituano alle “scoperte che cambiano la storia” e che, di questa assuefazione, dovranno tenere conto non solo le riviste, ma anche i siti e le aree archeologiche. Se per aprire un pagina web si fa a gara a suon di sensazionalismi, cosa dovrebbe fare un museo per invitare gli utenti a visitare fisicamente la mostra o la collezione permanente?
I PREGI DI UNA SERIA DIVULGAZIONE SCIENTIFICA
Vale dunque la pena iniziare a fare qualche riflessione su come materie complesse vadano adeguate ai nuovi modelli di consumo di informazioni, partendo dal presupposto che esistono tematiche che per loro natura ben si prestano al modello che, mutuando definizioni dal settore ristorativo, si potrebbe definire come “fast&junk”, mentre ci sono materie e tematiche che, nell’adottare tale modello, non fanno altro che snaturarsi, fino ad apparire ridicole. La cultura non può essere sempre “fast”: in alcuni casi lo è sicuramente, ma in alcuni casi non lo è affatto.
Questa riflessione acquisisce ancora più rilevanza se si pensa alla sempre maggiore attenzione con cui gli istituti culturali guardano a tecniche di marketing che originano nel cosiddetto storytelling e che spesso traducono, in veste istituzionale, lo stesso approccio sensazionalistico delle webzine.
Piuttosto che svendere l’archeologia, snaturandola, per una manciata di visitatori, è forse il caso di pensare alle tante iniziative che vanno via via affermandosi sui social network per divulgare informazioni afferenti alle materie scientifiche e che nel tempo hanno maturato una sempre maggiore capacità di attrarre lettori e utenti senza tuttavia disperdere il valore scientifico dei propri contenuti.
Si tratta, in fondo, di una tendenza social nata proprio per contrastare il sensazionalismo, e il crescente successo che riscuote (da TikTok a Instagram) è il segno di un cambiamento di preferenze da parte di una categoria di utenti che i musei spesso faticano a coinvolgere e incuriosire.
Trovare una propria linea narrativa, insomma, coerente con i propri contenuti. Senza dover a ogni costo scimmiottare l’ultimo hype e le best-practices internazionali.
– Stefano Monti
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