Un viaggio fotografico alla scoperta di Genova
Perché un pescecane galleggiava tra le sale del Museo di Storia Naturale di Genova? E come mai la città ligure fa pensare a Lisbona? A rispondere a queste domande è l’architetto Valter Scelsi, che ci porta alla scoperta di Genova insieme agli scatti di Giovanna Silva
Per essere riconosciute, le città devono scontare un piccolo pegno simbolico: scegliere qualcosa che le rappresenti e portarselo appresso per sempre. Il pegno di Genova è la Lanterna, e non le si chiede neanche molto per giocare questo ruolo, solo una certa fotogenia. Ai piedi della Lanterna, che poi è il faro monumentale che dal XII secolo veglia sul suo porto, Genova può disordinarsi a piacere.
L’immagine che fa capolino da mille scorci basta da sola a connotare positivamente il ruolo della Lanterna nella geografia urbana: come molti edifici alti, sviluppa una forma di radicamento sociale nel paesaggio e, contemporaneamente, produce un diffuso desiderio di imitazione. La sua evidenza la rende disponibile metafora e la propone alla copia. Così, quando nel 2004 l’artista americano Dennis Oppenheim viene invitato a realizzare un’installazione a Genova, nell’ambito della mostra Arti & Architettura, sceglie di collocare nel cortile di Palazzo Bianco Mobile lighthouse, un faro alto quasi otto metri appoggiato sul carapace di una tartaruga marina.
UN PESCECANE AL MUSEO
In realtà, i grandi animali marini come la testuggine a Genova quasi nessuno li ha mai visti, eppure se ne ipotizza l’esistenza. Fantasia di bestie, come fantasia di naufragi. Durante l’alluvione di Genova del 2014 il Museo di Storia Naturale Giacomo Doria viene invaso dall’onda di piena del torrente Bisagno. Tra gli oggetti galleggianti nel fluido grigio compare lo spettacolo inaspettato della pinna dorsale di un pescecane. Poi, a guardare meglio alla luce delle torce elettriche, non si vede solo la pinna, ma tutto il corpo del pescione. Pare che questo squalo sia nato nel Mar Ligure all’inizio del Novecento e pescato al largo di Portofino qualche anno dopo, quindi messo in formaldeide in una teca di vetro e accostato ad altre centinaia di corpi fluttuanti dentro vasi trasparenti, corpi di animali diversissimi, serpenti, anfibi, pesci, volatili e mammiferi. Da allora è rimasto lì, nel silenzio e nella penombra dei magazzini del museo, per più di un secolo, fino a quando l’acqua del Bisagno gonfiato dalle piogge si è opposta, come altre volte, a quella del mare e ha invaso la città, in quella parte pianeggiante di Genova che poi sarebbe il bacino di espansione naturale del torrente, se non l’avessero riempito di case. Il liquido grigiastro si è impossessato degli spazi sotterranei del museo, invadendo, distruggendo, trascinando. E liberando le misteriose creature fluttuanti. Lo squalo si è trovato, suo malgrado, a nuotare dentro il limo dell’alluvione.
Però, dal giorno in cui è finito nelle maglie delle reti dei pescatori il mondo è cambiato parecchio, e lui, il grosso pesce inutile le cui carni si diceva fossero perfino velenose, nel frattempo è diventato una star del cinema. Non solo del cinema, ma anche dell’arte, perché in questi anni un altro squalo morto si è trasformato in una glorificata opera contemporanea, anch’esso restando sospeso in una soluzione fluida, in una teca di vetro, dentro un museo. The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living si intitola l’opera dell’artista britannico Damien Hirst, che poi è uno squalo in formaldeide nella sua bella teca, venduta dal gallerista Charles Saatchi per la rispettabile cifra, dicono, di dodici milioni di dollari.
GENOVA COME LISBONA
E questa nostra piccola storia genovese potrebbe finire qui, oppure concludersi tornando nel 2004, quando, nel tentativo di mostrarmi arguto, chiesi a Edoardo Sanguineti se avrebbe mai scritto una piccola guida turistica della nostra città, sul tipo di quella di Fernando Pessoa per Lisbona, e lui mi rispose che, in effetti, lo stava proprio facendo. Poi Sanguineti partì per Lisbona (già), da dove scrisse per Genova un acrostico in sei versi, che ogni volta che lo rileggo penso come, in fondo, tutti i posti del mondo non serva abitarli per amarli, e neppure, forse, averli mai visti per conoscerli. Sei versi che sono questi, in fine:
Guardala qui, questa città, la mia:
È in riva al Tejo che io cerco Campetto,
Nel Bairro Alto ho trovato Castelletto,
O un Cable Car su in vico Zaccaria;
Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto
A replicarne un po’ la psiche e il volto.
‒ Valter Scelsi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #67
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