Dov’è finito il dissenso nell’arte contemporanea
Se l’artista tende sempre di più a uniformarsi alla società, anche il pubblico tenderà ad accettare in maniera passiva l’opera (e le istruzioni) dell’artista. Ma allora dove va a finire lo spazio per il dibattito e anche per il dissenso?
4 settembre 2022. Ho appena sentito un padre di famiglia in spiaggia pronunciare le parole “ci selfizziamo”. Uno dei più orrendi verbi coniati in italiano.
È successo, in fondo, che i “ricchi” si sono costruiti ‒ nell’arco di un cinquantennio – gli “artisti” a propria immagine e somiglianza (troppo complicato e scomodo, probabilmente, avere a che fare con artisti riottosi, indocili e scostanti, come in qualche periodo è pure avvenuto).
È evidente che nel ‘mondo dell’arte’ c’è, da anni, un gigantesco fraintendimento rispetto al termine-concetto partecipazione. La dimensione partecipativa delle opere è ridotta infatti, nella maggior parte dei casi, all’adozione di regole comportamentali e all’adesione a istruzioni impartite dall’artista: gli spettatori (che rimangono sempre, e solo, tali) sono caldamente invitati e indotti a seguire pedissequamente queste indicazioni, e non possono in alcun modo discostarsi dal sentiero tracciato. È una metafora dell’ossessione del controllo tipica di questo periodo, della tendenza cioè a imporre programmi rigidi e a ignorare la libertà dei singoli, anzi proprio a provare un certo deciso fastidio nei confronti di questa libertà, a diffidare francamente di essa. Questo, sempre in un contesto che si chiama “arte contemporanea” (ma anche, se è per questo, “cultura contemporanea”). L’artista che impartisce le istruzioni è a sua volta, ovviamente, emanazione della società, e ‒ nel caso specifico di questo presente ‒ della sua parte privilegiata e assolutamente minoritaria. “Emanazione” vuol dire che condivide di fatto i suoi valori, al punto da farsene portatore e da esprimerli (consapevolmente o no) – quindi, anche se socialmente non fa parte della classe dominante, aderisce almeno idealmente a essa (e vorrebbe tanto farne parte).
L’ASSENZA DI DIBATTITO E DISSENSO
Come e quanto oggi sono venuti meno gli spazi del dibattito.
La discussione viene costantemente disinnescata, prima ancora di nascere e di svilupparsi. Perché non è possibile esprimere davvero opinioni ‘contro’, o anche solo opinioni? Perché chi detiene il potere decisionale assume facilmente su di sé, già in partenza, le retoriche dell’altro punto di vista – che significa le paroline d’ordine, i giudizi, i discorsi, ecc.
Quindi forse la sfida più grande oggi consiste proprio nel creare lo spazio di un dissenso autentico e non decorativo, di preservarlo e di farlo crescere.
Al suo interno non deve vigere la lingua del potere.
Quindi, per riassumere, nel contesto di una discussione-pubblica-tipo oggi:
- Se sei ospite, non puoi parlare contro perché non è opportuno, e sei maleducato;
- Se non sei ospite, non puoi parlare contro perché non è opportuno, e sei maleducato (e oltretutto sei uno sfigato).
Se ci pensiamo, l’origine (una origine, almeno…) di tutto questo risiede nel fatto che si è creata, nell’arco di decenni, una disabitudine pressoché totale all’imprevisto – cioè a qualcosa che accade senza essere programmato, senza essere previsto nel famoso programma, e che accadendo rompe almeno un po’ e momentaneamente la sequenza, l’ordine degli eventi, e devia in qualche modo questa sequenza. La modifica e la deforma, in modo interessante.
Sempre a proposito di discussione/dibattito: non è prevista altra reazione o interazione che non sia l’applauso (oppure anche, se è per questo, il rifiuto del tutto scomposto, speculare all’applauso e in definitiva equivalente a esso; molto diverso in ogni caso dalla critica approfondita).
“L’apparire di qualcosa o qualcuno di imprevedibile entro uno spazio avvezzo al proprio contenuto” (Josif Brodskij).
IMPREVISTO // IMPREVEDIBILE.
Alla fine, la risposta è sempre quella: non ‘esporre’ le ‘opere’ negli ‘spazi’ (a uso e consumo degli ‘spettatori’) – ma fare in modo, proprio al contrario, che l’opera si mimetizzi nel tessuto materiale e immateriale della realtà. Al punto da fondersi quasi completamente in questo tessuto, e da risultare quasi indistinguibile rispetto a qualunque altro elemento di questo tessuto, di questa realtà.
L’opera è il ‘quasi’. O no?
‒ Christian Caliandro
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