Ivati e scontenti
Dalla Spagna arriva l’allarme. Scontro fra Stato e privato, lettera aperta delle associazioni di categoria dei settori creativi e delle gallerie d’arte al Governo. Aliquote troppo alte, misure che affaticano la cultura, sudori freddi per gli operatori del settore. E in Italia? Come la mettiamo?
L’ondata di sgomento che sta travolgendo la Spagna in queste giornate caldissime non ha risparmiato l’arte contemporanea. Il problema lo pone una lettera aperta delle associazioni di categoria del settore, destinata al Primo Ministro Mariano Rajoy e al Ministro delle Finanze Cristobal Montoro. In breve, unitamente a un Manifesto per la cultura, gli addetti ai lavori protestano per le misure intraprese dal Comitato Esecutivo quel maledetto 13 luglio che, a loro parere, influenzerebbero drasticamente il mondo della cultura. Aumento vertiginoso dell’IVA, tagli alla cultura e alla promozione degli artisti, aumento della deduzione fiscale.
L’atmosfera – dicono – è quella di un vero e proprio attentato alla cultura. E soprattutto pone un problema fortissimo, che riguarda non più solo la sfera pubblica, ma questa nella sua relazione con il privato. La questione sollevata da ADACE – Associazione Amministrazione Arte Contemporanea in Spagna, Board of Review e Commissioners of Visual Arts di Spagna, Consorzio Gallerie Spagnole d’Arte Contemporanea, IAC, Performing Arts Institute of Contemporary Art, Donne nelle Arti Visive, Off Limits, Visual Artists Association non è, d’altronde, estranea nemmeno all’Italia. Anzi, a dirla tutta, la condizione che ai nostri cugini iberici – che minacciano di chiudere bottega – tocca dalla metà di luglio (con, ad esempio, l’aumento dell’IVA dal 16 al 21%), noi la conosciamo da tempo.
Facciamo un po’ di storia. Il ventennio fascista, com’è noto, ha causato un notevole rallentamento nel sistema di acquisizioni museali nazionale. Cosicché, per volerla dire in due parole, mentre gli altri Paesi acquistavano le opere più importanti dei protagonisti di quelle che allora erano avanguardie, ma non ancora storiche, in Italia restavamo fermi. Dopo la guerra, mentre alcuni recuperavano il tempo perduto, in una corsa sfrenata alle acquisizioni in Italia – salvo alcuni casi felicissimi di eroi votati all’aggiornamento come Rodolfo Pallucchini, Palma Bucarelli o Francesco Arcangeli, per fare qualche nome di pionieri – noi restavamo fermi.
A riempire il vuoto c’era – piaccia o meno – il privato. La storia dell’arte contemporanea in Italia è nata ovviamente grazie agli artisti, ma in galleria. L’Arte Povera ha esordito alla Galleria La Bertesca. Le famose performance di Marina Abramovic e Ulay intitolate Imponderabilia o La rivoluzione siamo noi di Joseph Beuys si sono fatte da Lucio Amelio, per non parlare dei grandi artisti internazionali che, grazie allo sforzo delle gallerie, sono arrivati in Italia. Mentre raramente allora i musei investivano nelle opere di quelli che oggi noi consideriamo dei maestri, questi signori erano di fatto gli interpreti della scena contemporanea. Per non parlare della rete delle collezioni private, che oggi attraversa il Paese e che per molto tempo è stata di fatto tra le poche speranze di non perderci dei pezzi di storia.
Ora, questo non vuole essere l’elogio al privato, ma riteniamo che un sistema sano provenga da una relazione equilibrata tra pubblico e impresa, anche nella cultura. In sintesi, lo Stato, nei limiti del possibile, non deve operare iniezioni di ossigeno ai privati, ma nemmeno metter loro i bastoni fra le ruote, proponendo l’aumento di un’IVA già altissima (l’Italia è tra i Paesi con l’aliquota sulle opere d’arte più alta d’Europa) dell’1%. E si trema, non solo nell’arte, all’idea di un aumento a ottobre al 23%.
Affermano in Spagna, proponendo al Governo un tavolo di lavoro per discutere del tema, cercando possibilmente delle soluzioni, che il meccanismo rischia di incepparsi: gli artisti spagnoli andranno difficilmente all’estero, perché non saranno competitivi, il mercato godrà di peggior salute, la capacità dei musei pubblici di acquisire opere sarà molto più ridotta – con conseguente rallentamento per la capacità di aggiornamento delle collezioni -, arte e cultura correranno il pericolo di essere disattivate. E noi, qui in Italia, a che gioco vogliamo giocare?
Santa Nastro
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