Dalla performing art al tarantismo. Intervista a ORLAN
Ironia e pensiero critico si mescolano nella ricerca artistica di una delle pioniere della performing art, che mette da sempre il corpo al centro. E si batte contro il patriarcato
Per la prima volta in Salento, ORLAN (Saint-Étienne, 1947) è stata protagonista, nel luglio scorso a Galatina, della quarta edizione di Perform(her), il progetto della residenza internazionale Domus Art Residency ideato da Romina De Novellis, Ruotando intorno alla performing art a partire dalla ricerca sul tarantismo, l’iniziativa prosegue con le residenze autunnali avviate a settembre, ospitando le artiste Federica Zianni, Serena Antignani e Sara Terracciano.
Abbiamo intervistato l’artista francese che fin dagli Anni Sessanta ha basato la sua ricerca sulla liberazione del corpo, contestando i dettami sociali attraverso il pensiero critico, l’ironia e l’uso di vari linguaggi espressivi: dalla scultura alla fotografia, dalla performance al video, dalla realtà aumentata all’intelligenza artificiale e robotica, senza dimenticare alcune tecniche mediche nei campi della chirurgia e biotecnologia.
INTERVISTA A ORLAN
La liberazione del corpo umano dalla dicotomia maschile-femminile attraverso la performing art costituisce una delle tematiche fondanti della tua opera. Qual è la connessione tra il contrasto agli stereotipi di genere, l’ottica femminista e la ricerca sul fenomeno del tarantismo?
Ho sempre lavorato per garantire che lo stato delle donne e i corpi delle donne fossero liberati, emancipati e uguali agli uomini. Com’è possibile che l’aborto, la contraccezione o il matrimonio per tutti siano messi in dubbio? La Chiesa pretende di essere dissociata dallo Stato ed è molto strano che coloro che credono in Dio si permettano di intervenire nelle vite degli altri, specialmente se crediamo che Dio abbia creato l’essere umano a sua immagine e somiglianza. Non chiediamo a coloro che non vogliono fare l’amore prima del matrimonio di non sposarsi o di divorziare o di abortire o di essere omosessuali, così dovrebbe essere totalmente simmetrico e reciproco che nessuno debba intervenire nella vita privata altrui. Ma le religioni sono fatte dagli uomini per gli uomini per mantenere il patriarcato e la misoginia. Le conseguenze sono serie perché il femminismo non uccide, mentre il patriarcato sì. Il seminario sul tarantismo m’interessa molto perché ruota intorno alle donne che sono completamente oppresse, alienate dal peso della religione e dai ruoli che vengono loro imposti. Le tarantelle erano capaci di liberarle durante alcuni tipi di crisi nelle quali esponevano il corpo in pubblico, in un disperato tentativo di liberarsi da tutto ciò che le opprimeva. Era una domanda pubblica per la liberazione dei loro corpi.
Il corpo, come sottolinea Gòmez-Pena, costituisce, nell’ambito della performance, “contenitore di identità mutanti”. Spesso hai utilizzato, fin da Corps-sculptures del 1964-67, il tuo stesso corpo nelle azioni performative, come “tela” per creare arte, sfidando i dettami sociali e generando nuove e molteplici identità. Qual è, a tuo avviso, il rapporto tra corpo e identità?
Sono a favore delle identità mutanti, in movimento, nomadi. Le identità fisse creano orrori di comunitarismo senza atteggiamento critico. Per me, l’identità è cosa mettiamo in gioco ogni giorno, le identità sono flessibili, s’interrogano e si emancipano costantemente. Pensare è sempre pensare contro qualcuno perché l’Io è prodotto, formattato dagli altri. Ecco perché dico io “siamo” e non io “sono”!
ARTE, CORPO E TECNOLOGIA SECONDO ORLAN
Nel tuo manifesto sull’Art Charnel del 1989 hai stigmatizzato che “l’arte carnale è un autoritratto in senso classico ma realizzato per mezzo della tecnologia odierna. Oscilla tra defigurazione e rifigurazione. Da qui, l’introduzione, nelle tue azioni performative, di scienza e tecnologia. A tuo avviso, scienza e tecnologia applicate all’arte contemporanea costituiscono uno strumento di contestazione politico-sociale?
Ho iniziato il mio lavoro con la scultura, il disegno e la pittura, poi ho considerato il corpo come materiale tra i materiali. Perché sono un corpo, nient’altro che un corpo, un corpo totale ed è il mio corpo che pensa. Ogni cosa che siamo è politico, il corpo è politico, il privato è politico. Sono un’artista non soggetta a un materiale o a una pratica artistica, a un modo di dire, a una tecnica o a una tecnologia, che sia vecchia o nuova. Provo a dire cose importanti per la mia epoca, non sono né tecnofila ne tecnofoba, ma amo vivere il nostro tempo con le relative conquiste tecnologiche. Quando ero un’adolescente, nei miei sogni più selvaggi non potevo immaginare che un giorno avrei avuto un androide nella mia tasca, che mi avrebbe detto dove fossi e quanto lontana fossi da un museo per visitarlo. Mi sono interessata molto presto al linguaggio del video, fin dalla sua invenzione, poi all’antenato minitel di internet e successivamente ho creato lavori in realtà aumentata, e non semplicemente per usare una tecnologia ma perché questa determinata tecnologia mi ha permesso di dire qualcosa d’importante.
Nella postmodernità, l’arte contemporanea può ancora, a suo avviso, avere una valenza rivoluzionaria, liberando l’artista dall’omologazione?
Non è l’arte a essere libera, sono gli artisti a essere liberi e/o che liberano se stessi e spostano le barre della gabbia. Ho realizzato un lavoro che dice molto su questo “cercare di uscire dalla cornice”. Ho cercato di fare questo per tutta la vita e lo faccio ancora.
– Cecilia Pavone
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