Cesare Zavattini. L’intellettuale simbolo di un’Italia che non c’è più
Dalla letteratura al cinema al giornalismo, la carriera di Cesare Zavattini ha lasciato il segno. Ricordiamo l’intellettuale di Luzzara a 120 anni dalla nascita, il 20 settembre 1902
Nasceva 120 anni fa Cesare Zavattini (Luzzara, 1902 ‒ Roma, 1989), poeta, scrittore, fine umorista, sceneggiatore, giornalista. Uomo schivo, allergico alla retorica e alle prime file, è stato un intellettuale di ampio respiro che ha interpretato l’Italia e gli italiani, interrogandosi sui cambiamenti sociali.
ZAVATTINI E IL GIORNALISMO
Il primo campo d’azione in cui mise alla prova la sua statura d’intellettuale fu la carta stampata, in anni certamente non facili perché sotto la dittatura fascista. Nel 1936 fondò per la Rizzoli il Bertoldo, fortunata rivista satirica di cui divenne anche direttore, chiamando fra i collaboratori Giovanni Mosca e un giovane Giovannino Guareschi; fra i disegnatori, anche Saul Steinberg, che le infami leggi razziai costrinsero nel 1938 a emigrare negli Stati Uniti.
Il Bertoldo esprimeva un umorismo leggero e anticonformista, innovativo rispetto all’accademismo delle riviste dell’epoca. Per contrasti con l’editore, Zavattini lasciava il giornale già nel 1937 per entrare nella redazione del Marc’Aurelio, settimanale all’apparenza allineato, in realtà critico del regime fascista, anche se fra le righe di un’artistica sottigliezza. Questo era possibile perché, in un’epoca in cui i giornali erano fucine di talenti, scrivevano e disegnavano per la testata persone quali Federico Fellini, Ettore Scola, Furio Scarpelli, Age, Steno, Marcello Marchesi, Castellano e Pipolo; un giornalismo di sostanza che si reggeva sulla selezione di chi aveva le necessarie capacità, e dove l’uso della lingua italiana era di per se stesso una forma d’arte. Zavattini maestro e “tutore” di futuri maestri, in un percorso virtuoso di costruzione della cultura nell’ottica di farne beneficiare anche le generazioni successive. Con il dopoguerra, e fino al ’59, Zavattini rimarrà nel mondo del giornalismo collaborando con riviste come Vie Nuove ed Epoca, per la quale curò la rubrica Italia domanda, mentre dal 1954 sul rotocalco femminile Noi donne ne curava un’altra dal tenore simile: Parlate di voi a Za. Questo suo mantenere un dialogo diretto con i lettori denota il suo voler essere un intellettuale al servizio dell’opinione pubblica che non teme il confronto ed è lieto di poter dare, se richiesta, la propria moderata opinione.
LA LETTERATURA DI ZAVATTINI
Zavattini, uomo del Novecento, scrive di se stesso e degli altri, cercando di capire la direzione imboccata dalla società, scrive accompagnando le sue riflessioni con l’umorismo, scrive senza fermarsi nemmeno davanti a eventuali scomode verità. Un esempio su tutti, quell’Ipocrita 1943 (pubblicato soltanto nel 1955) in cui ripercorre le dinamiche che hanno portato all’Italia della guerra civile; una situazione della quale, forse, anche gli intellettuali sono stati responsabili, non opponendo sufficiente resistenza al fascismo. Una riflessione amara, che lascia aperti dubbi ai quali probabilmente non ci sarà mai una risposta univoca; ma era comunque necessario porsi la domanda.
Fra la vasta produzione di Zavattini, citiamo anche I poveri sono matti (1937), lo sono il diavolo (1941), Totò il buono (1943), che costituiscono una sorta di informale trilogia con cui l’autore, con amaro umorismo intervallato da sporadici raggi di speranza, denuncia una società buia, malata di violenza; quasi le stesse riflessioni di Pablo Picasso mentre dipingeva La baignade nel 1937. In un certo senso, anche Zavattini si perde su una spiaggia semiombreggiata, a fare i conti con la realtà e con la nostalgia di ciò che non potrà più essere.
IL CINEMA SECONDO ZAVATTINI
Dopo gli esordi nel cinema dei “telefoni bianchi”, nel dopoguerra Zavattini volle continuare quelle riflessioni avviate fra le pagine di Ipocrita 1943, e per raccontare l’Italia della ricostruzione contribuì alla stagione neorealista firmando le sceneggiature di Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D., ed ebbe con Vittorio De Sica un vero e proprio sodalizio artistico (anche se lo intervallò ad altre collaborazioni) che terminò soltanto nel 1974, alla morte del regista. Sodalizio che andò ben oltre il Neorealismo, perché fra le pellicole sceneggiate troviamo L’oro di Napoli, La ciociara, Matrimonio all’italiana, Ieri, oggi, domani,
Se Zavattini era stato prima interprete della controversa Italia del dopoguerra, lo fu anche di quella sospesa tra le recenti ferite ancora aperte e le contraddizioni sociali e materiali del “miracolo economico”; l’ingenuità della povertà lascia il posto alla scaltrezza dell’affarismo, e s’intravede in filigrana una drammatica cesura che, come un colpo di falce, allontana il passato anche dalla memoria.
Come sceneggiatore, Zavattini cerca di dare voce alle categorie sociali più indifese, come i poveri, gli anziani e i bambini, che portano avanti ogni giorno la loro silenziosa e dignitosa battaglia contro le ingiustizie; Sciuscià e Umberto D. ne sono forse gli esempi più intensi, con quest’ultimo che si avvicina a certe prose di Guareschi de L’Italia provvisoria, e con profetica amarezza si intuisce come la dignità personale stia diventando una merce sempre più rara.
ELEGIA DI LUZZARA
La Bassa Padana rimase sempre nell’animo di Zavattini, che nel 1955 decise di compiere una sorta di pellegrinaggio al paese natio, accompagnato dal fotografo modernista Paul Strand; con lui realizzò Un paese (1955), il primo esperimento italiano di libro fotografico che, come riportano le note di copertina è “una sintesi di film e libro che si propone di presentare in pagine fotografiche e di testimonianza scritta l’esperienza di quel nuovo contatto con la realtà conquistato dall’arte cinematografica particolarmente italiana, negli ultimi anni”.
Alle immagini si accompagna, da parte di Zavattini, quel sentirsi un uomo della Bassa, legato al grande fiume e ai suoi paesaggi, alla sua gente con le sue memorie. Ma nel 1955 la civiltà contadina era giunta al tramonto, per cui, a distanza di quasi settant’anni, è straniante rileggere le parole con cui Zavattini accompagna le fotografie di Strand, e dove all’impronta neorealista si affianca una genuina poesia, grazie ai testi venati di affetto per il mondo contadino, di ricordi personali, arricchiti dalle testimonianze dei luzzaresi stessi.
ZAVATTINI SPERIMENTATORE
Prima ancora di cimentarsi con Un paese, Zavattini cominciò a sperimentare sin dagli esordi, nel 1931, con il “non romanzo” Parliamo tanto di me, un viaggio nell’aldilà sulla scia della Divina Commedia, vera e propria letteratura dell’assurdo in leggerissimo anticipo su quello che sarà il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, e che rivela uno Zavattini attento al clima culturale europeo dell’epoca. Una particolarissima opera letteraria a carattere esistenzialista, che mette in discussione la saldezza del vecchio Superuomo, e si pone domande cruciali quali il senso e il valore dell’infinito, il suo rapporto con l’individuo. Di tutt’altro genere l’incursione nel cinema jugoslavo con la sceneggiatura de La guerra, di Veljko Bulajić, che fu anche presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 1960; una pellicola in cui s’intrecciano fantascienza e geopolitica, e dove allo spettro delle distruzioni della guerra atomica si affianca il precario equilibrio etnico della Jugoslavia titina, all’apparenza granitica, in realtà una polveriera in attesa di una scintilla. Forte anche il messaggio di rigetto della guerra e della violenza, nella speranza che la lezione della Seconda Guerra Mondiale potesse davvero fare scuola. Così non sarà, e la “pietra tombale” di questa illusione sarà NON LIBRO più disco, un volumetto estroso e anticonformista che inaugurò gli Anni Settanta.
Vicina, per certi aspetti, a Revolution 9, la celebre non canzone dei Beatles di due anni prima, anche l’opera di Zavattini è una consapevole avanzata verso il caos seguito al fallimento delle utopie del decennio precedente, e può essere vista come la riflessione di un intellettuale sui danni del relativismo e del consumismo. Gli Anni Settanta, e tutti quelli a venire, avrebbero purtroppo confermato le sensazioni si Zavattini e di altri come lui.
‒ Niccolò Lucarelli
http://www.cesarezavattini.it/index.jsp
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