L’arte contemporanea è sempre più finta?
Quando un’opera “funziona”? Quando mette in campo la sincerità e rifiuta le maschere. Nuove riflessioni sull’arte contemporanea e sul suo essere, alla fin fine, una recita
Il giovane commesso nel negozio di vestiti dove ho appena comprato una maglietta che mi dice: “Visita il nostro altro punto vendita qui vicino, mi raccomando: lì c’è tutto per te, è proprio il tuo mondo”. Mah. (E che vuol dire ‘il mio mondo’? E soprattutto: come hai fatto a capire qual è ‘il mio mondo’ in quattro minuti che sono stato qui dentro, tre dei quali li ho passati nel camerino?)
“La finale del premio Strega, giovedì scorso a Roma, ha regalato agli appassionati una sorpresa e una conferma. La sorpresa è stata la pioggia, dopo settimane canicolari e senza una nuvola; la conferma, la vena sempre più performativa dei finalisti, in gran parte disposti, per la riuscita dello spettacolo, a indossare una maschera e a recitare a soggetto, come nella commedia dell’arte. (…) provocazioni innocenti, cordiali e tutto sommato innocue; trasgressioni paradossalmente consensuali, perché si scandalizzano solo i cattivi, mentre i buoni si sentiranno nel giusto. Se in molti apprezzeranno la studiata miscela di glamour e impegno civile con cui stiamo rimpiazzando ciò che una volta si chiamava poetica, altri noteranno che questo succede perché – proprio come a Sanremo – chi sposta l’accento dalla propria opera alla propria persona, o personaggio, sembra temere in cuor suo che l’opera stessa non sia sufficiente. Che non basti a dire quel che aveva da dire; che non possa ‘passare’, e restare, da sola” (Gianluigi Simonetti, Attraverso lo specchio. Lo Strega di quest’anno, “Domenica-Il Sole 24 Ore”, 10 luglio 2022, pubbl. anche in versione ampliata ne “Le parole e le cose”: https://www.leparoleelecose.it/?p=44682).
Così il 10 luglio sulla Domenica del Sole 24 Ore il critico letterario Gianluigi Simonetti si concentrava, in maniera molto lucida ed efficace, su un fenomeno piuttosto sfuggente ma cruciale nella cultura contemporanea – tanto cruciale che possiamo riconoscerlo, praticamente con tratti identici e con le medesime sfumature, anche nel territorio dell’arte visiva. La finale del Premio Strega diventava così il riflesso, e il sintomo, di una tendenza non più tanto sotterranea in atto non solo nel momento della ricezione delle opere, ma proprio in quello della loro produzione e della successiva presentazione.
ARTE E FINZIONE
Ciò che Simonetti sottolinea è il sottrarsi dell’artista/scrittore nel momento stesso in cui si espone, vale a dire il far giocare l’opera su più terreni, nel timore mai davvero confessato che essa non possa bastare a se stessa, né sopravvivere alla recita del suo autore/autrice. E allora, l’artista/scrittore sceglie – sul modello delle star del cinema: ma quelli sono attori, sono pagati per recitare, per fingere di essere altre persone, o no? – di indossare un costume, di assumere una posa: engagé, sciamano, bad boy/bad girl, modaiolo-dandy, techno-cyberpunk, ecc. ecc. Fino alla chiosa, fulminante, sempre del critico, che apre anche per noi scenari abbastanza inediti ma interessanti, se ci pensiamo bene?
“Alla fine ha vinto Desiati, guarda caso il meno outsider dei finalisti, il meno spatriato nella repubblica delle Lettere. Dev’esserci un rapporto tra questa presenza centrale e questo proiettarsi nei margini: e non sarebbe male come materia romanzesca” (ibidem).
ARTE E SINCERITÀ
Tutto questo avviene in realtà, l’abbiamo detto, a scapito dell’opera. Ma che vuol dire sul serio “a scapito dell’opera”? Credo, a scapito della sua sincerità, della sua autenticità. E come fai a distinguere un’opera sincera e autentica da una insincera e inautentica? (Che equivale tutto sommato a dire: come fai a distinguere un’opera che ‘funziona’ da una che ‘non funziona’?) Difficile rispondere, ma in fondo questo è il compito della critica.
La sincerità non è “pubblicitaria”, per così dire: non è conveniente, non è efficiente: non è un compito che, una volta svolto e assolto, ti garantisce la gratificazione immediata (e il riconoscimento). La sincerità fa opere secche, taglienti, radicali nel senso letterale della parola – che vanno alla radice, che individuano e diventano questa radice. L’opera insincera e inautentica sta solo cercando di vendere se stessa, aggira le domande mettendole bene in fila sapendo già le risposte, o mettendo in fila le risposte a domande che in realtà non sono affatto domande, e che non lo sono mai state.
La sincerità (per il momento) è uno scavo, una ricerca di se stessi e su se stessi, senza trucchetti e giochini.
‒ Christian Caliandro
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