Una cosa è emersa con chiarezza nell’ultima serie di Fashion Week appena conclusa. Il confine tra prêt-à-porter di lusso e haute couture si fa sempre più sottile. Ne deriva che le definizioni “classiche” dell’uno e dell’altra appaiono sempre meno calzanti. Accade perché, assediato dal basso dal fast fashion, il prêt-à-porter prova a staccare l’avversario alzando sempre più la complessità delle sue proposte? O più semplicemente la moda sta interpretando il sentimento prevalente di questi nostri tempi inquieti?
Carattere precipuo di queste ultime collezioni è l’insistenza su quel che negli Anni Ottanta veniva definito con il termine “over”: la complessità dei tagli, l’adozione di volumi abbondanti (spesso abbondantissimi), la scelta di materiali “preziosi” anche per l’estate, il ritorno di bijoux voluminosi oltre ogni ragionevolezza… e ancora la proposta di calzature più adatte alla permanenza in un boudoir che a un qualsiasi utilizzo urbano, l’utilizzo di acconciature non lineari accompagnate da make up elaborati (compresa la proposta di lunghe e abbondanti ciglia finte): la complessità del tutto induce poi a pensare che non si tratti (solo) di semplici déjà-vu.
Poi ci sono le forme del corpo proposte, e queste escludono ogni “devianza”: usiamo di proposito questo termine che in Italia nel regime politico emergente è tornato drammaticamente d’attualità. Certo la scelta di altissime, magrissime e per lo più giovanissime modelle non è una novità, semmai un ritorno a forme sognanti mentre vocaboli come fluido, inclusivo e sostenibile sembrano aver perso di colpo il loro appeal mediatico. Indifferentemente che si tratti di Milano, New York, Londra o Parigi. C’è qualcosa di “passivo-aggressivo” in queste proposte: come non pensare a un sentimento parallelo a quello che sta avvenendo in altri settori della nostra vita sociale?
L’ABITO È PROTAGONISTA DELLE ULTIME SFILATE
La sola Miuccia Prada ha fatto riferimento diretto al termine “semplificazione” (ma le ciglia finte, lunghe e folte, sono pure opera sua) per descrivere la collezione progettata insieme a Raf Simons. Si tratta di un’affermazione isolata: difficile dire se perché i due sono molto oltre o decisamente fuori registro rispetto a tutto il resto.
Forse il più importante tra i “megatrend” emersi questa volta ha nell’“abito” (la negazione del pezzo scomponibile e ricomponibile a piacimento che è un vezzo tipico della Gen Z) l’architrave dei look mandati in passerella. Cosa assai più rilevante se si ricorda che per qualsiasi brand sono gli accessori e i loro stretti correlati a costituire il motore dei fatturati aziendali. La stessa couture è ormai da tempo un’operazione utile soprattutto a costruire un profilo altissimo e di conseguenza a qualificare nella fascia top i prodotti “altri” di cui un brand è capace.
In ogni caso per designer di marchi storicamente connotati in questo ambito come Maria Grazia Chiuri per Christian Dior, Pier Paolo Piccioli per Valentino o Pieter Mulier (Alaïa), oppure designer connotati per naturale formazione in sartoria come Domenico Dolce (Dolce&Gabbana), ma persino Donatella Versace o Glenn Martens (Diesel), un fatto del genere non sarebbe stato così rilevante.
Scontato pure il sentimento di giapponesi come Yamamoto e Watanabe, mentre Kawakubo (Comme des Garçons) non li ha contraddetti, ma si colloca come sempre in un’altra dimensione. Questa “scuola” ha difatti sempre progettato a partire dalle proprietà insite nei tessuti e dalla conseguente capacità di utilizzarle per i tagli unici che sono la caratteristica di questa sartoria. Eppure anche qui la collezione progettata da Jun Takahashi (Undercover) ha previsto per le prime quattro uscite abiti con aperture bordate di organza arruffata, alcuni persino appuntati con fiori di seta: così nel finale sono apparsi quattro abiti vicinissimi all’idea di couture come mai era accaduto in precedenza da Takahashi.
Ancora più rilevante come proprio sul “vestito” si sono concentrate la presentazione di collezioni come quelle di Hillary Taymor (Collina Strada), di J W Anderson (Loewe), Rick Owens (sempre meno punk) e di quel Demna Gvasalia che dopo aver caratterizzato il suo show per Balenciaga con riferimenti alla guerra di Putin (tema indicato per un abbigliamento sportswear), non è riuscito a trattenersi dall’inserire qua e là abiti da grande soirée, genere intorno a cui quasi per intero (ma qui meno sorprendentemente) ha costruito la sua collezione Thom Browne.
IL CASO GHESQUIÈRE-PARRENO
A contraddire e insieme confermare il tutto è arrivata in chiusura dell’intero ciclo di presentazioni la collezione di Nicolas Ghesquière (Louis Vuitton). Complice Philippe Parreno, Ghesquière ha sovradimensionato ogni dettaglio degli abiti presentati. Parreno ha disegnato per il brand di LVMH una enorme scultura a forma di fiore vermiglio posta poi al centro della di una passerella circolare sistemata nella Cour Carrée del Louvre. Le sue proporzioni devono aver ispirato pure le minacciose dimensioni di zip, abbottonature e ogni altro particolare dei look mandati in passerella da Ghesquière. Lo spirito complessivo della collezione ‒ con i suoi pesanti boot oltre la caviglia e le tasche utilitarian piazzate ovunque ‒d’acchito ha poco a che vedere con la couture. Ma è davvero così? Perché Ghesquière si posiziona da sempre proprio lì, tra i più abili couturier del momento.
MODA E TRASFORMAZIONE
La moda è un fenomeno davvero particolare: “leggero” e “contraddittorio” per definizione, intuisce ‒ e a un osservatore attento segnala ‒ fenomeni (anche sociali) altrove non ancora evidenti. A differenza dell’arte, la moda è veloce e pervasiva nell’amplificare e diffondere il “nuovo”. Nei manuali di geografia economica viene presa come esempio di un fenomeno che innova per contagio e, in funzione della sua capacità di penetrazione locale, rileva comportamenti che a loro volta possono trasformare l’organizzazione territoriale. “Volubile” per definizione, la moda costituisce un settore industriale in cui l’intreccio tra globale e locale, tra territorio e rete internazionale è la struttura del suo sistema. Così la pensa anche Emanuela Mora, che nel suo Geografie della moda indica come in termini anche spaziali sia in grado di diffondere la “verità” dei corpi sognanti di cui periodicamente modifica la proposta. Una lettura caldamente consigliata.
Aldo Premoli
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