Il mondo dell’arte di fronte alle crisi e alle urgenze del presente
Abbiamo chiesto a dieci addetti ai lavori di riflettere sul ruolo dell’arte e della cultura rispetto a cambiamenti climatici, conseguenze pandemiche e globalizzazione. Ecco cosa ci hanno risposto
La riflessione sull’ambiente che i settori dell’arte e della cultura in generale stanno portando avanti attualmente è sufficiente o credi che sia necessario spingere oltre la ricerca per condurre a un livello più alto di consapevolezza? Quali sono le istanze più urgenti a tuo parere? Come si coniuga la questione ambientale con i grandi eventi (fiere, biennali), le monumentali dimensioni delle opere e la necessità di movimentare cose e persone in un mondo sempre più globale? Cosa ci ha o non ci ha insegnato la pandemia? Sono queste le domande che abbiamo rivolto a un gruppo di addetti ai lavori che operano nel campo dell’arte e della cultura.
Santa Nastro
Versione aggiornata dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #68
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EMANUELE COCCIA ‒ FILOSOFO
Per essere all’altezza delle sfide del nostro tempo l’arte deve smettere di pensarsi come una attività parziale del mondo umano, per riconoscersi come il processo e la forma dei rapporti che legano tutti i viventi a se stessi e agli altri. Ogni essere vivente ha un rapporto consapevole, attivo e creativo con il mondo che lo circonda, con se stesso e con il resto dei viventi. Questo significa che ogni essere vivente manipola e trasforma l’ambiente, se stesso e gli altri viventi, come noi manipoliamo un artefatto artistico. Tutto in natura è artificiale, tutto è costruito esteticamente. Un prato è un museo della natura contemporanea costruito dagli insetti impollinatori. I pavoni sono performer guidati dalle curatrici appartenenti alla stessa specie. Questo significa che la catastrofe ecologica è soprattutto una catastrofe estetica. L’arte deve impadronirsi dell’ecologia e trasformarla in attività per costruire un’avanguardia interspecifica.
STEFANO BOERI ‒ PRESIDENTE TRIENNALE MILANO
Parlare della società; parlare della sua composizione sociale, culturale, linguistica. Parlare dell’incertezza scaturita dalle quattro grandi crisi globali di questi ultimi vent’anni (terrorismo, crisi finanziaria, pandemia, guerra), resa ancora più acuta perché privata di un futuro immaginabile dalla crisi climatica. Parlare dell’ignoto, della sua pervasività. Parlarne senza voler conquistare, colonizzare, possedere un sapere che non sarà mai completo e dominante, ma fertile e caduco perché capace di interrogarsi su “quello che non sappiamo di non sapere”. In Triennale ci stiamo provando. Il ritorno del bisogno di prossimità è oggi una necessità fisica oltre che psicologica. Una sorta di pigrizia comportamentale struggente e pervasiva. Reagire non significa tornare alla frenesia del movimento rapido dei corpi e delle merci e delle immagini, ma concentrarsi sull’agilità potente delle idee, sulla loro trasversalità duttile e generativa. Avvicinare l’altro alle nostre idee, avvicinarsi alle sue e lasciarle entrambe avvicinabili da altri; non importa se davanti a un piatto caldo, in una galleria espositiva o su uno schermo. Rendere prossime le idee. Questo è il ruolo di un museo.
CAMILLA BOVE ‒ THOMAS DANE GALLERY – NAPOLI-LONDRA
La pandemia ci ha regalato del tempo per aprire nuove riflessioni e sviluppare insolite connessioni. Thomas Dane, insieme a un gruppo di persone del mondo dell’arte, ha fondato la Gallery Climate Coalition proprio durante questo periodo così complicato. La ricerca non risulta mai essere sufficiente, ma la condivisione di informazioni e le nuove collaborazioni nate nel settore ci danno speranza per elaborare un lavoro consapevole e puntuale per ridurre le nostre emissioni. Da gennaio 2022 la sede napoletana della Thomas Dane Gallery, insieme a un gruppo nutrito – tra cui kaufmann repetto, Cardi, Flash Art –, ha supportato la creazione del primo gruppo nazionale di GCC per elaborare delle risorse locali. Sono i primi piccoli passi ma è necessario che si sviluppi una cultura per l’ambiente radicata nel settore e che venga appoggiata anche dall’industria che collateralmente supporta il mondo dell’arte: trasportatori, energia ecc.
ANDREA CONTE ‒ ARTISTA E INGEGNERE AMBIENTALE
Il mondo industrializzato sta affrontando una trasformazione epocale di tutto il comparto produttivo. Il problema è che questo cambiamento sta avvenendo troppo lentamente. Anche il mondo dell’arte deve adottare misure sostanziali. Negli anni, con il supporto di alcuni ricercatori, abbiamo calcolato gli impatti di mostre, musei e fiere e studiato strategie di mitigazione e adattamento. In molti ne parlano ma pochi sono stati ancora gli interventi concreti. Il tema centrale della questione ambientale è sempre legato alle risorse naturali, al loro utilizzo e agli impatti generati. A mio parere non basta solo pianificare l’abbandono delle fonti fossili e un utilizzo sostenibile delle risorse, bisogna anche riconsiderare il rapporto utilitaristico e antropocentrico che noi umani abbiamo nei confronti del non-umano e dell’ecosistema in cui viviamo. L’arte in questa fase della crisi può fornire visioni laterali, anticipare futuri desiderabili, nutrire immaginari innovativi e contribuire al cambiamento del presente. È importante non prestarsi a controproducenti operazioni di greenwash. In conclusione, la transizione ecologica per riuscire dovrà essere rapida, dovrà considerare le diseguaglianze, e non dovrà essere solo una questione tecnica, economica e politica, ma anche filosofica, sociale, culturale e artistica.
AURELIA MUSUMECI GRECO ‒ ACQUA FOUNDATION
Pensare all’ambiente è importantissimo oggi in un mondo fortemente in pericolo per l’impatto che non solo le aziende ma anche i nostri comportamenti quotidiani riversano su di esso, ferendolo. Proprio per questo abbiamo creato Acqua Foundation: crediamo che l’arte possa essere un “veicolo” per la sua efficacia comunicativa, e dobbiamo impegnarci tutti di più per sensibilizzare l’opinione pubblica e generare comportamenti virtuosi. Tante le iniziative in tal senso e il ruolo della ricerca è fondamentale! Abbiamo inaugurato Imaginarium, una giornata sul ruolo delle industrie creative: come queste possano rivoluzionare il loro sistema a livello globale, come possano essere portatrici di valori e buone pratiche per migliorare la situazione ambientale con una serie di accorgimenti tesi a rendere più consapevoli i consumatori. Occorre aprire più direzioni, pensare sì alle imprese, al loro ruolo nella società, ma anche ai singoli cittadini. Mi capita di andare in giro per eventi culturali e sono felice di entrare sempre più in contatto con momenti di sensibilizzazione a favore dell’ambiente: sempre meno carta e plastica ma non solo, la tematica binaria “arte e ambiente” è in forte aumento. Occorre riconsiderare l’attuale: sì, grazie alla pandemia abbiamo iniziato a spostarci poco abbassando l’impatto, avendo la possibilità di accedere a iniziative online di qualità. Sì, sia la crisi globale, sia la pandemia ci stanno insegnando a riconsiderare la vita, quella di ogni giorno, e a dare valore alle piccole cose. Mi auguro un futuro migliore sempre più vicino: bisogna darsi da fare, bisogna impegnarsi!
MARIO CUCINELLA ‒ ARCHITETTO
È sicuramente un buon inizio, anche se un po’ tardivo. Mi sembra di vedere un impegno reale, concreto: sono sul tavolo temi che fino a qualche anno fa, purtroppo, non si avvertivano così urgenti. Ma no: non è certamente sufficiente. Sarebbe come dire che abbiamo in mano già tutte le soluzioni. Cosa che non è. Ciò che è urgente è raccogliere dati, e analizzarli con estrema attenzione, perché solo da lì si può partire per capire effettivamente a che punto si sia e cosa serva fare. E la ricerca per sua natura non è mai sufficiente, perché è un continuo divenire. Non si può fermare, perché supera se stessa di momento in momento. Quanto al rapporto grandi eventi/ambiente: non ho parametri concreti sull’impatto dei primi sul secondo. Ma non credo che il cancellare appuntamenti come questi possa portare a miglioramenti così sensibili. D’altronde: due anni di chiusure totali sono stati risolutivi? Forse le conseguenze negative supererebbero quelle positive, eliminando anche queste occasioni di socialità e condivisione vera.
EGLE ODDO ‒ ARTISTA
C’è una discrepanza tra l’alacrità di quegli artisti che si pongono il problema ambientale seriamente, pur non essendo deputati a risolverlo, e l’inerzia della classe politica, che, tergiversando, non sanziona i crimini ambientali, decima il verde pubblico e riduce le aree protette. Le istanze più urgenti riguardano l’agricoltura, lo smaltimento dei rifiuti e l’edilizia moderna: la maniera deficiente in cui sciupiamo suolo, acqua ed energia. L’edilizia sempre meno durevole è uno dei fattori più inquinanti. Nell’agricoltura le soluzioni esistono, ma vengono osteggiate con scelte politiche impugnate dalla finanza. Va di moda offuscare il problema usando la digitalizzazione come pretesto per differire ulteriormente. Anche nel settore dell’arte è necessario produrre favorendo l’upcycling delle risorse, pensando alla manutenzione insieme alla progettazione, e questo non viene preso in considerazione nelle grandi manifestazioni culturali perché non si pongono obiettivi a lungo termine. L’impiego oculato e circolare delle risorse, come la messa in opera del collettivo ruangrupa alla documenta, è nettamente in controtendenza con il trend generale, poiché crea benefici durevoli per molte comunità a livello globale. La pandemia ci indica che fondare una società sul profitto piuttosto che sull’impulso etico è il cammino per l’estinzione. Ma noi l’abbiamo capito?
STEFANO CAGOL ‒ ARTISTA
L’arte non può esimersi dall’avere un ruolo sociale, oggi che l’universo visivo è esploso e la società, abbandonata allo sguardo illusoriamente onnisciente dei nuovi media, appare cieca e diffidente verso grandi questioni odierne, climatiche, energetiche. L’arte è quindi chiamata a fare da tramite per narrarle, distillarle attraverso il suo carattere simbolico e universale. Affronto questi temi da decenni e anche la mia stessa consapevolezza è cresciuta progressivamente, sfociando nel progetto al MUSE We are the Flood, noi siamo il diluvio, piattaforma liquida su crisi climatica e interazioni antropoceniche, volutamente a basso costo e basso impatto, tanto da fondare gli allestimenti sul riuso dei materiali accumulati nel deposito del museo. Un fare ideologicamente opposto al mainstream dei grandi eventi, che si stanno sviluppando oltre ogni buon senso, mossi da pura speculazione e miraggio economico. La pandemia ha svelato limiti e possibilità, come l’importanza del glocal e del web. Ma non abbiamo capito la necessità di rallentare, se desideriamo un possibile futuro.
NICOLA RICCIARDI ‒ DIRETTORE ARTISTICO MIART
Il momento storico che stiamo attraversando rende ancora più urgente affrontare la questione del cambiamento climatico, interrogandoci su come portare avanti il nostro lavoro limitando il più possibile l’impatto sull’ambiente. Serve sicuramente più consapevolezza da parte di tutti, ma anche soluzioni pratiche. Su questo aspetto è, a mio avviso, molto importante il lavoro che sta svolgendo la Gallery Climate Coalition (GCC) che, attraverso strumenti come il “carbon calculator” e semplici ma efficaci linee guida come l’organizzazione di trasporti di gruppo, gli incentivi per depositi condivisi, l’utilizzo di materiali ecocompatibili, solo per citarne alcune, sostiene la decarbonizzazione del settore delle arti visive e incoraggia le pratiche zero-waste. Si tratta di piccoli gesti che con miart cerchiamo di promuovere costantemente, in linea con i principi di Fiera Milano, orientata da anni a seguire nelle proprie manifestazioni principi di sostenibilità economica, ambientale e sociale.
LEONARDO CAFFO ‒ FILOSOFO
Nel vasto scenario del mondo delle arti contemporanee, e delle sue interazioni con la cultura in generale, si registrano due fenomeni uguali e contrari. Da un lato un (quasi) giustissimo incancrenirsi sulle questioni di un’urgenza che potremmo definire “de facto”: ecologia, questione di genere (si pensi all’ultima Biennale), riflessione sull’allargamento degli orizzonti della vita (postumano), esacerbazione necessaria della destituzione dell’identità capitalistica (penso alla documenta), nuovi orizzonti possibili (la Triennale di Ersilia Vaudo). Dall’altro lato, tuttavia, sembra essersi inceppato il motore pulsante della ricerca che potremmo definire “de re”, quello meno scontato e più orientato verso l’anticipazione delle vere questioni che dovremmo affrontare con urgenza: la disconnessione dal digitale, l’impossibilità del riformismo interno al sistema stesso, l’urgenza della presa d’atto che nessun’arte con pretese rivoluzionarie può essere neanche minimamente cortigiana, la presa di coscienza che più che sostenibilità ci servono stabilità e stop del progresso, la fine dello sfruttamento della vita animale e non semplicemente la discussione sui confini dell’esistenza. In tal senso è sempre più necessario comprendere che l’orizzonte dell’arte è la vita, non la produzione di opere, ed è questo che dovrebbe averci insegnato la pandemia… non cosa ci serve per intrattenerci ma di cosa abbiamo davvero bisogno per una vita degna di essere vissuta.
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